
di Marco Damilano
Fonte: Domani
Da un lato «potenza, forza, violenza, diventati il riterio principale sul quale si
fondano i modelli politici, culturali, economici e forse anche religiosi del nostro tempo. Dall’altro lato, però, in Terra Santa e nel mondo, vediamo sempre più spesso la reazione indignata della società civile a questa arrogante logica di potere e di forza. Le immagini di Gaza hanno ferito nel profondo la comune coscienza di diritti e di dignità che abitano il nostro cuore».
È toccato ieri al patriarca latino di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa, nella lettera per i fedeli della sua diocesi, segnare il confine che passa tra le ragioni dell’umanità e il precipizio della violenza, auspicando un primo passo per la pace per la Palestina. Un nuovo confine che non ricalca gli schieramenti politici.
E che però aiuta a capire cosa sta succedendo in Italia, la marea di persone non convocate, spesso non organizzate, uscite di casa per manifestare per Gaza e per la Global Sumud Flotilla. Ieri a Roma almeno un milione, dopo lo sciopero di venerdì che ha fatto il giro dei media internazionali.
Quasi un nuovo bipolarismo: di là, il potere che si fa legge a sé, di qua la reazione della società civile, come scrive il cardinale Pizzaballa. Chi fa politica, specie da posizioni di governo, e chi per lavoro commenta quanto avviene, dovrebbe cercare di capirne le ragioni.
Invece, negli ultimi giorni, Giorgia Meloni, Matteo Salvini, Ignazio La Russa, i principali ministri, colpiti da un movimento imprevisto per dimensioni e mobilitazione, hanno preferito attaccare i manifestanti, con argomenti antichi: gli scioperanti che non
vogliono lavorare, gli studenti che non vogliono andare a scuola, il weekend lungo.
«La Cgil fomenta l’odio sociale», ha detto il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, parlando come quei notabili anni Cinquanta che disprezzavano il neo-realismo, citando a sua insaputa una delle battute del film capolavoro
C’eravamo tanto amati, forse era un omaggio inconscio a Ettore Scola, irpino come lui.
A supporto ci sono commentatori, per brevità li chiameremo il Trombone Collettivo, che trattano i manifestanti con un mix di paternalismo e perbenismo, o addirittura invocano l’intervento di Benjamin Netanyahu sul corteo di Roma, invito perfettamente speculare allo striscione che inneggia al 7 ottobre.
Il governo ha scelto di cavalcare un sillogismo che recita: tutto il movimento, milioni di persone, è responsabile di ogni singolo atto che avviene al suo interno, compreso il gesto di imbrattare la statua di un papa; i partiti e i sindacati di opposizione sono i registi nascosti del movimento; ne consegue che tutti i leader di partiti e sindacati di opposizione sono responsabili di ogni atto di violenza, di ogni fumogeno sequestrato, di ogni carica contro
la polizia, riproposta ossessivamente dai telegiornali.
Giorgia Meloni gioca a identificarsi con la Nazione, ad acchiappare nel supermercato dei valori ad offerta speciale tutti i simboli possibili, da Giovanni Paolo II a Francesco di Assisi, cavalcando un teorema ancora più scivoloso: chi non è d’accordo con me è contro lo spirito nazionale, la maggioranza degli italiani.
Un argomento che chi governa in un paese democratico dovrebbe sempre maneggiare con cura, soprattutto se si governa in nome di una minoranza elettorale: nelle Marche, presentate come un trionfo, Fratelli d’Italia ha raccolto il 27 per cento della metà degli aventi diritto al voto, in voti assoluti 155.540, ne aveva presi 216.396 alle europee del 2024, 222.116 alle politiche del 2022.
Nella minoranza che va a votare, il centrodestra si è cementato, ma non ha sfondato. È il mantenimento del potere il sentimento che anima ora la destra all’improvviso non più populista, ora che il popolo va in strada per altri motivi, come ha scritto ieri Daniela Preziosi.
Un popolo in attesa di rappresentanza. Non è vero che su Gaza i partiti del centrosinistra hanno aspettato l’arrivo delle piazze per prendere posizione e seguono movimenti organizzati da altri, hanno organizzato la prima manifestazione di massa il 7 giugno. Ma non basta ancora per recuperare anni di frattura, di distanza dalla società, un vuoto in cui ha attecchito il vero nemico: non sono le destre, è la sfiducia.
Non serve certo tornare indietro, come vorrebbero i nostalgici del governismo, ma andare più in profondità.
In questo popolo che non è più anti-politico, ma politicissimo. Non più sovranista, perché non predica prima i nostri, il nostro popolo, la nostra Nazione, verbo quotidiano dei Maga di
ogni parte del mondo, ma scende in piazza per altri: un altro popolo, un’altra terra.
Per «la comune coscienza di diritti e di dignità che abitano il nostro cuore», come ha scritto il cardinale Pizzaballa, da quel luogo, la Palestina, Gerusalemme, dove da sempre ogni pietra è insieme contesa, insanguinata, ma anche profezia di una convivenza possibile.








