QUANDO LA SOLIDARIETÀ DIVENTA PROPAGANDA: IL SINDACO VOCE E LA MORALE A TARGHE ALTERNE
Fonte: U’Ruccularu
Dopo l’atto intimidatorio contro Antonio Megna, il sindaco di Crotone condanna la violenza ma ne approfitta per attaccare i blog e la stampa non allineata, tracciando il confine tra “giornalismo serio” e “informazione da scartare”.
La solita lezione di democrazia al contrario.
RICOSTRUZIONE DEI FATTI
Nella notte tra il 6 e il 7 ottobre, ignoti hanno danneggiato la BMW X4 di Antonio Megna, consigliere comunale di maggioranza e ufficiale di governo di Papanice.
L’auto, parcheggiata sotto la sua abitazione e poi spostata nei pressi della filiale Bper di via Tedeschi, è stata trovata con vistosi graffi e segni profondi sulla carrozzeria.
Megna ha presentato denuncia alla Digos della Questura di Crotone, che sta acquisendo le immagini delle telecamere di sorveglianza della zona.
Il consigliere — esponente vicino al movimento Crescere e sostenitore di Sergio Ferrari e del sindaco Vincenzo Voce — ha reagito con un post sui social: parole di amarezza, ma anche di sfida.
“Non mi fermeranno mai. Amo quello che faccio e continuerò a farlo per chi crede che questo territorio possa cambiare”, ha scritto Megna, definendo l’accaduto un gesto vile ma confermando la volontà di proseguire la propria attività politica.
Un atto intimidatorio che, in una città già segnata da episodi simili, avrebbe meritato un messaggio di ferma condanna istituzionale, sobrio e unitario.
Ma la dichiarazione del sindaco Vincenzo Voce si è trasformata, come troppo spesso accade, in un manifesto politico travestito da solidarietà.
IL COMMENTO DEL SINDACO
Nel suo intervento pubblico, Voce ha parlato di “clima pericoloso” e di una “messa al ludibrio delle persone” da parte di “siti web e blog che si nascondono dietro l’anonimato”.
Il primo cittadino ha puntato il dito contro una “cosiddetta informazione” che, a suo dire, avrebbe preso di mira Megna con attacchi personali e “offese gratuite”, arrivando a coinvolgere anche familiari e a “millantare fatti non circostanziati”.
POI LA DISTINZIONE, TANTO NETTA QUANTO RIVELATRICE:
“Esiste, per fortuna, anche un giornalismo serio, fatto di professionisti.
Un giornalismo anche critico, ma fondato su fatti, documenti, approfondimenti.
A questo guardiamo con rispetto.”
Una frase apparentemente equilibrata, ma che in realtà suona come una patente di legittimità concessa solo a chi si muove entro i confini tracciati dal potere.
Un confine che, guarda caso, coincide con la cerchia di giornalisti e pagine amiche che ogni giorno rilanciano comunicati, elogi e post dell’amministrazione senza mai porre domande. La stampa dei murales, dei mercatini e dei concerti.
Non si parla di amianto in città (vedi II Traversa Via Messina o i capannoni Ciliberto), nessuna notizia da Arpacal per chiedere gli esiti dei primi lavori della bonifica, la Guardia di finanza alla Piscina è bastato un articolo per riportare il fatto all’inizio. Poi più nulla.
E che dire degli alloggi in via Israele? Silenzio assoluto per non disturbare.
LA SOLIDARIETÀ A GEOMETRIA VARIABILE
Il problema non è la solidarietà espressa a Megna, che è doverosa e sacrosanta.
Il problema è come e perché viene espressa.
Quando il sindaco Voce trasforma un episodio grave in un’occasione per colpire chi lo critica, scivola dal piano istituzionale a quello personale.
La sua dichiarazione, più che un gesto di vicinanza, diventa una difesa di parte, un messaggio subliminale al sistema informativo cittadino:
“Chi ci sostiene è giornalismo serio.
Chi ci contesta è pericoloso.”
Anche se c’è da dire, per dovere di cronaca, che talvolta alcuni articoli espressi da chi attacca rasentano il ridicolo.
Vedi presunte dichiarazioni d’amore in Comune o giornalettismo in mano a bambini in cinque anni. “Oggi si è svolta la manifestazione a favore della Palestina in piazza, nutrita partecipazione”.
Un articolo lungo come un titolo di giornale. Ma andiamo avanti.
PRIMA TI DICONO CHI SONO I BUONI E I CATTIVI, POI DECIDONO PURE CHI PUÒ PARLARE
In una città dove la libertà di stampa è già fragile, dove i cronisti lavorano tra silenzi, querele e isolamento, l’idea che il sindaco si arroghi il diritto di distinguere i “buoni” dai “cattivi” giornalisti è inquietante.
Non solo perché nega la pluralità dell’informazione, ma perché alimenta quella cultura del sospetto e dell’autocensura che rende sterile il dibattito pubblico.
Voce non parla di trasparenza, non parla di rispetto delle domande scomode, non parla di garantire spazi di confronto.
Parla invece di “gossip”, “offese” e “anonimato”, concetti comodi per etichettare tutto ciò che non controlla.
Il suo bersaglio non è la calunnia (che va perseguita), ma la critica autonoma, quella che scava, verifica, espone contraddizioni e responsabilità.
LA VERA MESSA AL LUDIBRIO
E allora la vera “messa al ludibrio” non è quella subita da chi ricopre un incarico pubblico e ha tutti gli strumenti per difendersi.
È quella quotidiana di una comunità disinformata, a cui viene servita una realtà filtrata, addomesticata, sponsorizzata.
È quella di una stampa locale ridotta a eco della politica, dove la pubblicità istituzionale diventa la nuova forma di controllo.
Nel frattempo, chi prova a raccontare altro — che sia un blog, una pagina satirica o un giornale indipendente — viene bollato come “anonimo”, “fazioso”, “distruttivo”.
È la solita logica del potere locale: il dissenso come minaccia, la compiacenza come virtù.
A CROTONE LA LIBERTÀ DI STAMPA È SOTTO TUTELA DEL POTERE.
Se davvero Vincenzo Voce vuole combattere il “clima pericoloso”, dovrebbe cominciare da se stesso e dalla sua amministrazione.
Dovrebbe difendere la libertà di parola anche di chi non gli piace, invece di trincerarsi dietro l’idea di un giornalismo su misura.
Non dimentichiamo quando ha esposto alla pubblica derisione Iginio Pingitore, o quando etichetta come “cani” chi lo critica in maniera veemente.
Insomma, il primo cittadino può dire quello che vuole, gli altri no.
L’atto contro Antonio Megna è grave e merita chiarezza: che sia di natura politica, professionale o personale, saranno le indagini a stabilirlo.
Ma piegarlo alla propria narrazione politica è altrettanto grave: significa usare la paura come strumento di consenso.
E in una democrazia, la paura non si strumentalizza: si disinnesca con trasparenza, con rispetto, con coraggio.









