(Federico Rocca – Vanity Fair) – Programmi riesumati dalla naftalina, cult nazionalpopolari che resistono indenni da decenni, l’usato garantito come unica alternativa: la tv generalista italiana sembra avere smarrito la voglia di sperimentare, innovare, stupire. O sarà solo una sensazione?
Chi meglio di Carlo Freccero, il dirigente televisivo passato dal Canale 5 degli anni Ottanta alla leggendaria Rai a cavallo del millennio, quella di Chiambretti e dei Guzzanti, di Santoro e Luttazzi, può leggere in controluce l’attuale radiografia di una televisione – secondo alcuni – moribonda?
Lo è davvero?
«Tutt’altro. Vede, per capire la tv bisogna prima capire il pubblico di oggi: sballottato tra pandemia e guerra, lavora per due terzi della giornata e vive una vita dura, pesante, faticosa, piena di angosce. La tv generalista rappresenta la nostra fase di relax quotidiano, è l’unico medium completamente passivo che richiede il grado zero dell’attenzione. È un tranquillante, un calmante, se vuole un palliativo. Sarà anche malata, ma paradossalmente la tv è anche una medicina».
Qual è la malattia più grave che l’affligge?
«La prevalenza dell’access-prime time sulla prima serata vera e propria, che dovrebbe essere al centro dei palinsesti e che invece è stata ormai declassata a seconda serata. Le punte di diamante della tv, oggi, sono due videogiochi per adulti: La ruota della fortuna, da una parte, e Affari tuoi dall’altra. La prima appassiona come la Settimana enigmistica, il secondo rappresenta uno sfogo all’inclinazione ludopatica degli italiani. Un’accoppiata così forte da aver, di fatto, cancellato una trasmissione iconica come Striscia la notizia. La tv generalista è diventata puro intrattenimento, abdicando da qualsiasi ruolo di influencer dell’opinione pubblica: i due giochi in questione fanno, assieme, più del 50% di share. Che è un po’ la stessa percentuale dell’astensionismo alle ultime regionali. E non è un caso».
Lei, da telespettatore, cosa vorrebbe vedere in prima serata?
«Purtroppo sono deformato professionalmente, il mio sguardo non è più vergine: guardo la televisione come i pensionati guardano i lavori pubblici. Però, quando posso scegliere, vado sulla fiction. Ma se esaminiamo l’attuale prima serata di Canale 5, per esempio, vedremo che si appoggia su due pilastri che si mixano in modo straordinariamente fluido e intercambiabile: i programmi prodotti dalla Fascino di Maria De Filippi e le soap opera turche, suggerite dalla signora Carla Dall’Oglio, madre di Pier Silvio Berlusconi».
Maria De Filippi è la donna – o diciamo pure il personaggio – più potente della tv italiana?
«È una numero uno, le riconosco il grande merito di avere rinnovato completamente il reality. Ma non so se sia la più potente».
«Bisogna fare dei distinguo. Arrancano quelli tradizionali, come il Grande fratello, mentre macinano ascolti record quelli alla Temptation Island. Non siamo più in un contesto statico, a camera fissa, dove tutto procede lentamente. De Filippi ha trasformato il reality in una telenovela piena di colpi di scena, capace di saziare la fame di storie del pubblico».
Chi è, allora, il più potente della tv generalista di oggi?
«Scotti, un’icona di Mediaset, e De Martino, che ho portato io in Rai. Lui fa la televisione esattamente come seduce le ragazze».
Direi bene, quindi. Si parla molto del ritorno di Ok, il prezzo è giusto! Perché la tv ripropone solo format già ampiamente testati decenni fa, e che molti davano per morti e sepolti?
«Viviamo nella dimensione della postmodernità, che si fonda sul concetto di eterno presente: una dimensione temporale dove non ci sono più un prima o un dopo, una storicità che possa rendere un prodotto datato. Ogni prodotto diventa un prototipo riproponibile all’infinito, purché venga reinterpretato ogni volta con una nuova chiave di lettura. Un po’ come succede con la moda, che nasce per rendere obsoleti i vecchi prodotti e costringerci a rinnovare di continuo il nostro guardaroba. Ma con la postmodernità non è più così: ogni creazione si trasforma in icona atemporale, dalla giacca bar di Dior alla petite robe noir di Chanel, che non passano mai di moda. Gli stilisti che si succedono alla guida delle varie maison li riscoprono e li rieditano periodicamente. Se penso a Chanel non ricordo tanto le creazioni di Coco, quanto l’iperchanelizzazione operata nella maison da Karl Lagerfeld».
Cosa c’è di attuale nella Ruota della fortuna, soprattutto nella dinamica dei ruoli del conduttore e dell’assistente?
«Guardi, il meccanismo della Ruota è un po’ quello della musica degli anni ’60: ci ritrovi la tua giovinezza, la tua adolescenza, il mondo perfetto di Berlusconi. Ci ritrovi il conduttore che vuole rianimare Mike Bongiorno, e in qualche modo anche la valletta, che si era persa col femminismo. Samira Lui è “perfetta”, anche nelle fattezze, è una di quelle donne delle copertine di Grand Hotel: una che sta al suo posto, una figura tradizionale».
Ballando con le stelle, Amici, C’è posta per te: tutti i successi che riescono a restare tali hanno almeno 20 anni. Perché?
«La televisione generalista si basa sull’audience, e l’audience è sostanzialmente ripetizione. Grazie a format consolidati le emittenti possono fare affidamento su investimenti pubblicitari certi: il marketing lavora sull’esistente, non sul nuovo ancora da realizzare. Ma l’eccessiva ripetizione può logorare i format, e così la sperimentazione non può essere del tutto cancellata. Piuttosto, viene esiliata su reti minori, complementari, digitali».
Quando la tv italiana ha saputo innovare davvero per l’ultima volta?
«Negli anni ’80, quando nacque la tv commerciale, presa poi come prototipo in molti Paesi: diede il via a una vera e propria rivoluzione culturale in tutt’Europa. Mi tocca fare un po’ di storia. Negli anni ’50 la tv nasce con due modelli antitetici: quella americana divenne subito espressione della cultura del Paese, che ha sempre privilegiato il valore del capitale economico. Al contrario, in Europa antepose il suo valore culturale, quasi “disprezzandone” quello commerciale. Gli Stati europei conservarono a lungo il monopolio televisivo per fare di quel nuovo mezzo un uso pedagogico, un complemento della pubblica istruzione. La tv commerciale italiana ha scardinato tutto».
Ha detto che la tv italiana non influenza più l’opinione pubblica. Nemmeno i talk show politici?
«L’epoca mitica in cui il talk forma l’opinione pubblica coincide con Mani pulite, quando il genere esplode nelle sue forme più celebri, da Samarcanda di Santoro a Profondo Nord di Gad Lerner, e viene vissuto come uno spazio comune in cui dibattere l’eccezionalità politica del momento. Rappresentava la ricerca condivisa della verità: perché quel miracolo si verificasse era necessaria l’eterogeneità degli ospiti, e il conseguente scontro tra opinioni diverse. Oggi nei talk c’è un cast fisso che recita un copione già scritto, in funzione di una normalità politicamente corretta che non prevede differenze ideologiche, ma solo piccole divergenze su temi marginali. Ecco perché qualcuno dice che ora la tv è solo propaganda».
La cronaca nera imperversa, nei podcast e nelle trasmissioni pomeridiane della tv. Perché?
«Il crime funziona sempre, perché è una sorta di matrice narrativa, implicita nella meccanica stessa degli eventi. Ogni caso giudiziario, e ogni sua narrazione, si apre con un omicidio: e che cos’è l’omicidio se non quella “rottura dell’equilibrio” che per lo strutturalismo e la critica formalista dà il via all’azione, costituendo la prima di una serie di tappe obbligate che rendono il racconto efficace?».
Da dove arriva la vera minaccia alla tv generalista, oggi: dai social o dalle piattaforme di streaming?
«Dobbiamo cominciare a riflettere davvero nell’ottica dell’integrazione dei media portata dall’avvento del digitale. Prima, quando un medium si imponeva, cancellava la centralità di quello precedente. A un certo punto cambia tutto. Che cos’è oggi la televisione: quello che vediamo sullo schermo fisso del salotto, o anche ciò che fruiamo su altri device come pc, tablet, smartphone? È difficile stabilire chi contenga cosa, oggi, e di conseguenza rispondere alla sua domanda».
Da dirigente è stato promotore di una tv – parole sue – «provocatoria e scomoda». Oggi che cosa lo è?
«Niente. Sono aggettivi che, per acquisire senso, presupporrebbero differenze, o stonature, tra i contenuti programmati, rispetto al contesto e all’identità della rete in cui un certo programma viene trasmesso.
La verità è che non esistono più reti autonome e indipendenti, i direttori non sono più nelle condizioni di dare loro un’identità editoriale. Da tempo la realizzazione dei programmi è stata sottratta alle singole reti, per essere affidata a strutture produttive che fanno capo ai diversi generi: informazione, fiction, intrattenimento…
Una volta un canale era come una boutique monomarca – per esempio di Hermès – e i suoi prodotti dovevano differire da tutti gli altri per essere identificabili. Oggi i palinsesti generalisti sono piuttosto un grande magazzino che vende gli stessi identici prodotti della concorrenza. L’obiettivo è l’omologazione: ogni secondo di televisione deve avere un valore commerciale».
Telemeloni esiste?
«Esiste come sono esistite, a suo tempo, Telerenzi e Teledraghi. È stata la riforma Renzi a far dipendere le nomine del Consiglio di amministrazione della Rai dal governo in carica. I direttori di rete non devono dimostrare competenze mediatiche, ma piuttosto fedeltà all’esecutivo.
Quello che, in qualche modo, è riuscito a sopravvivere fino a oggi delle reti concepite con indipendenza editoriale viene ora espulso, o appena tollerato, come per esempio Report. Il risultato? Un appiattimento totale e assoluto.
L’unico elemento che sembrava poter giustificare un servizio pubblico che grava economicamente sulle tasche dei contribuenti era l’informazione indipendente. Cancellata quella, la televisione pubblica non è più in grado di giustificare la sua esistenza».
Deduco che sia contrario al canone.
«A questo punto sì, considerato come la Rai non faccia più quell’informazione libera che, oggi, è invece appannaggio della rete: solo lì vengono trattati quegli argomenti considerati tabù dai mezzi mainstream, rompendo certi dogmi. Internet non è più l’osceno, non è più il complottismo: è il luogo della controinformazione».
Se la chiamassero oggi per un ruolo dirigenziale in una tv, a cosa direbbe di sì?
«Ma no, adesso basta. Un po’ di umiltà, su. Certo, io mi sento in una forma magnifica a livello televisivo, ma è il caso di lasciare spazio agli altri».
Qual è il miglior programma nuovo che ha visto in tv negli ultimi anni?
«La fiction: L’arte della gioia di Valeria Golino, per esempio, ma anche Dostoevskij dei fratelli D’Innocenzo: sono bravissimi, e sanno vedere nella realtà esattamente quello che io vedo nella tv».
E cioè?
«La miseria del mondo».








