Cosenza. Malavita, palluni e spadaccini: la storia che torna

La Cosenza di oggi somiglia, per certi versi, a quella degli anni Ottanta, quando i riferimenti sociali e culturali si sintetizzavano in due modelli poveri ma potentissimi: malavita e palluni. Erano gli anni della prima guerra tra clan cosentini. Sparatorie vere, con morti ammazzati veri all’ordine del giorno. Un periodo buio per la città. «Si usciva poco la sera, compreso quando era festa». La paura di finire nel mezzo di una sparatoria era concreta.

A quei tempi, come oggi del resto, lo stato c’era poco, la politica ancora meno, la cultura quasi per nulla. L’unica “cultura” davvero presente era quella malandrina. Attraversava la città intera, coinvolgendo tutti, direttamente o di riflesso. Le sue regole, i suoi riti erano conosciuti e accettati. La violenza e la prevaricazione ne costituivano il linguaggio quotidiano, praticato e tollerato. In questo contesto il modello di riferimento per i giovani era uno solo: il malandrino, quello che “ce l’aveva fatta”. L’unico a esibire successo e ricchezza. Un esempio da imitare (almeno fino al processo Garden). Il che produsse un esercito di aspiranti malandrini pronti, in qualsiasi momento e per qualunque motivo, a menare le mani e tirar fuori la pistola, costringendo la città a coprifuochi di fatto e a una convivenza rassegnata con la violenza, percepita non più come un’anomalia, ma come parte dell’ordine delle cose. L’unico momento di evasione da tutto questo era u Cusenza.

Oggi, per fortuna, non si spara più alle persone. Non ci sono più clan che si fanno la guerra per il controllo del territorio, ma micro-conflitti quotidiani, tra bande, legati allo spaccio dell’oro bianco: la coca. Il più grande business della città, che coinvolge migliaia di persone. Se negli anni ottanta il modello da seguire era il malavitoso tutto capizza e baiaffa, oggi la figura dominante è quella dello spadaccino, spesso legato al medio e piccolo spaccio di pezzata. In tanti a Cosenza aspirano a una carriera da narcos, o quantomeno si atteggiano a tali. Questo mondo diffuso di piccoli e medi Scarface occupa oggi tutti gli spazi della città, producendo una violenza più casuale e meno organizzata, che si manifesta attraverso risse e aggressioni. Ma la logica di fondo che muove tutto questo, è sempre quella: forza, arroganza e sopraffazione come strumento di affermazione sociale. È la stessa miseria morale del passato, aggiornata solo nei metodi e nei personaggi.

Quando una città non produce più immaginari alternativi, quando una comunità smette di offrire modelli positivi, quello spazio viene occupato da chi si impone con la forza, dall’arroganza elevata a identità, dalla violenza assunta come strumento di affermazione. È una storia che si ripete. L’aggressione al ragazzo la notte di Natale a Santa Teresa, pestato da dieci spadaccini tra i 18 e i 22 anni e insultato con frasi omofobe, è il prodotto diretto di questo contesto ormai degenerato. Cosenza è tornata indietro agli stessi meccanismi, agli stessi modelli, allo stesso immaginario povero e violento degli anni ottanta. Con una differenza sola, e decisiva: allora la città aveva paura e lo sapeva. Oggi no. Oggi chi cresce dentro questo clima lo scambia per normalità. Ed è così che le stagioni buie non finiscono mai davvero: si limitano a cambiare facce.