Astolfo Lupia. Un artista glocal: “Dove sono”

Ho ereditato dai miei antenati questa lingua in cui oggi scrivo.

Mi è stata trasmessa sin dal tempo dell’origine.

Per lei, grazie a lei, penso, sento;

nella sua sintassi scarna,

nella sua fonetica aspra mi muovo, sono.

Dall’emblematico titolo Dove sono, il libro di Astolfo Lupia (ilfilorosso, pp.72, 2023, euro 12) consta di due parti distinte ma l’una all’altra omogenee: la prima formata da undici componimenti poetici in dialetto; la seconda composta da una galleria di trentatré immagini. Raccolta di poesie o album di fotografie? Nè l’una né l’altro, o meglio, un ibrido ben riuscito in cui testo e foto danno al lettore la sensazione di penetrare a fondo in un mondo definitivamente mutato. E ormai perduto.

Le significative, affascinanti fotografie in bianco e nero ne danno una conferma immediata. Il gioco elegante di luci e ombre che emerge dagli scatti dell’autore non smussa l’idea dei complessi cambiamenti avvenuti negli ultimi cinquant’anni nel paese di origine dei suoi avi. Il paese in cui venni al mondo è lontano, nel tempo, non meno che nello spazio. A volte fingo, per gioco, che qualche malevola e capricciosa divinità lo abbia nascosto in un luogo e un’epoca remoti, inaccessibili e sostuituito con un simulacro, una copia abbastanza convincente ma che lascia intravedere l’inganno là dove la maglia non tiene, è meno densa, meno stretta.” Si succedono le poesie, ognuna preceduta da una piccola introduzione e seguita dalla loro traduzione in italiano. I Barcuni (I balconi), ‘U castiellu (Il castello), Pene d’amure (Pene d’amore), A vinella ‘e ‘na vota (La viuzza di una volta), Jume (Fiume)… Le liriche prendono spunto da oggetti, luoghi e situazioni visti e vissuti a Parenti, paese cosentino posto alle pendici occidentali della Sila nella alta valle del fiume Savuto. Al tormentato corso d’acqua è dedicata una significativa lirica che ci instrada nella concezione esistenziale dell’autore (e degli abitanti di quei luoghi):

Jume, ca sbrughi tutta l’acqua a mare,

tu, ca te ’mpiasi e ’mpurri tutt’e cose:

cchid’è su riminizzu senza pace,

cchid’è ssa cursa c’un canuscia fine?

Si ’nu maestru tu, si forse ’u sulu,

me ’mpari culla vuce c’un s’accita

ca tuttu passa e va, e resta sulu

chillu ca nun se stringia culle mani.”*

Molti sono coloro che praticano la poesia, e in genere i risultati sono deludenti per eccesso di dilettantismo, o se poeti dialettali per rimarcare retoricamente un presunto bel tempo andato. Non è il caso di Lupia, con il suo ottimo esordio poetico scevro da nostalgie. L’autore, operatore in una casa d’accoglienza psichiatrica in Umbria, è un artista eclettico: innanzitutto fotografo, ma anche fortemente interessato alla scrittura. Una decisione, quella dell’uso del dialetto, non facile, anzi apparentemente perdente, perché legata all’idea odierna della sconfitta di un mondo popolare ritenuto in via d’estinzione e incapace di elevarsi dalla condizione di inferiorità sociale che la storia gli ha assegnato. Tra il dialetto di Parenti e l’italiano, Astolfo Lupia ha scelto il primo, non perché l’idioma materno si padroneggia meglio, ma perché, usando la lingua illustre, avrebbe corso probabilmente il rischio di cadere nella freddezza formale di modelli e stereotipi che mal si sarebbero conciliati con il calore, la rusticità, le problematiche bellezze della propria terra e dei suoi “eroi”. La vivacità del dialetto gli permette di saldare i conti con l’istintività, la quotidianità, l’economia di un mondo una volta arcaico e oggi in problematica trasformazione, legandolo indissolubilmente alla propria esperienza di vita e a quella dei suoi abitanti. L’aspetto impressionistico che suscitano le foto è frutto di una profonda riflessione dell’autore. In una intervista a proposito del suo rapporto con la fotografia Lupia ha dichiarato: “Nel corso delle mie lunghe e solitarie escursioni in luoghi differenti (con una certa predilezione per gli spazi non particolarmente affollati) mi lascio guidare dalle impressioni che in me provocano le cose, l’ambiente circostante, senza curarmi eccessivamente dell’organicità dell’esito finale.” Sfogliando, insomma, il suo Dove sei appare evidente che sia le “impressioni” fotografiche che le poesie dialettali gli permettono di saldare i conti con l’istintività e la quotidianità di un mondo che non esiste più.

Lupia appartiene alla generazione dei cinquantenni. Ha conosciuto Parenti del secolo scorso, il paese degli anni ’70, quello ancora legato ad una dimensione spaziale e temporale nella quale gli impetuosi corsi d’acqua erano tali e non modificati da muri e asfalti; dove le case erano nidi abbarbicati su rami di tufo e non fredde dimore di ferro e cemento; dove le strade erano percorse ancora da animali da soma e le auto erano rare; dove i vicoli erano nicchie che avvolgevano i bimbi nei loro giochi alla scoperta della vita. Effetto nostalgia? Nient’affatto. L’autore si sforza di evitarla, l’idillio non pare proprio la sua cifra. Foto e poesie raccontano anche la speranza del cambiamento, memori di un passato fatto anche di aspri scontri politici e foriero di un futuro radioso.

Dai ’70 irrompe, purtroppo, una nuova era. Il lavoro pur precario, le rimesse degli emigranti, le pensioni, i contributi a pioggia delle Istituzioni fanno intravedere un certo miglioramento. E’ l’inatteso che coglie impreparati cittadini e amministratori. Lavoro e ricchezza sembrano a portata di mano; la conseguenza è la costruzione di nuovi disordinati edifici e il conseguente “consumo” del territorio. Le trasformazioni sono così forti che modificano non solo il paesaggio ma anche le coscienze. Il calore della comunità contro l’aridità del non-luogo. Le piazze abbandonate contro i crocevia disaggreganti. Da una parte il centro storico con le sue piazzette, le vie, i vicoli, intrecciati intimamente alla vita dei suoi abitanti; dall’altra i moderni edifici e le nuove strade “perdute”, che non portano in nessun luogo, senza un baricentro che permetta di legare sentimenti e anime dei suoi abitanti. L’autore narra attraverso le poesie e le immagini il legame inestricabile con l’altro intorno a lui, fatto di uomini, donne e bambini, odori, sapori, suoni.

Il libro di Astolfo Lupia non è, però, semplicemente il “racconto” del suo paese, ma di tutti i luoghi travolti dalla surmodernità; non è nostalgia di un mondo che non c’è più, ma qualcosa d’altro. E’ l’amarezza per quello che avrebbe potuto essere e non è diventata la Calabria, cioè ogni Sud del mondo. E affinché non si dimentichi, egli imprime ai versi un ritmo dolente, fotografa usando malinconici grigi. Attraversato da una sottile vena di amarezza il suo lavoro getta uno sguardo critico su una società lacerata dal turboliberismo. Lupia ci offre una chiave di lettura universale, non solo di Parenti, ma di tutti quei villaggi del mondo globale, che hanno osservato, stupefatti, i cambiamenti e lo sfaldamento delle antiche speranze. La sua piccola patria non è solo, così, un luogo dell’anima, ma anche la metafora di migliaia di comunità sparse per il mondo, costrette a subire un processo economico e sociale distruttivo dei valori tipici di un passato che, pur da non mitizzare, ha permesso la sopravvivenza per secoli a milioni di uomini e donne in base alla forza di quella solidarietà che ha sempre smussato la violenza delle disuguaglianze sociali, oggi accentuata da individualismo e iperconsumo. Scrive in Saracinesca:

Tanti sonnavanu ’nu suannu ’e tanti, ’nu suannu a uacchi apiarti, ’na speranza;

nu munnu senza serbi né patruni, senza cchiù né tamarri né cafuni. ’Nu martiallu, ’na havuce e ’na stella e ’na bandiera russa de passione: era lu suannu d’a rivoluzione.”(…)**

  • Fiume che sbrodi tutta l’acqua a mare/ tu che trascini tutto ciò che trovi:/ cos’è questo trambusto senza pace/ e cos’è questa corsa senza fine?// Sei un maestro, tu, sei forse il solo,/ m’insegni con la voce che mai tace/ che tutto passa e va, e resta solo/ quello che non si stringe con le mani.”

** “Tanti sognavano il sogno di tanti,/ un sogno ad occhi aperti, una speranza;/ un mondo senza servi né padroni/ senza più né bifolchi né cafoni./ Un martello, una falce ed una stella/ e una bandiera rossa di passione:/ era il sogno della rivoluzione.//…”