Arzura 1
di Gioacchino Criaco
«Secca il fiato al Libeccio e caccia il rifriscu allo Zefiro, affoga di sabbia lo sforzo unico delle agavi, dora i capperi e imbiondisce la sulla, alle fiumare regala l’argento dei sassi e corre feroce a rendere inutili i gemiti dei pastori. Disonora la grande madre mettendogli in grembo il fiele e lasciandole in petto a dondolare vuote e inutili verine.
U bruschiu lo chiamano i pastori sottovoce, è il vento secco che porta spine di sabbia nel suo ventre, arriva da Cartago, il Simun, in ventiquattr’ore abbrustolisce le cime degli alberi e il fiore dei pascoli, secca le pozze e costringe le acque perenni a inabissarsi. Un morbo trasparente che puzza e brucia come lo zolfo. Trasforma la primavera in autunno e sentenzia un inverno di fame».
Nessuno, come i meridionali, conosce i temi dell’Apocalisse. All’acqua e al fuoco si pensa in questi giorni di caldo, guardando i debutti di fiamma di traditori e coglioni che già provano ad assediare l’Aspromonte.
La Montagna Lucente di nuovo sola ad affrontare i demoni che lei stessa ha partorito.
L’Arzura che si leva rossa e minacciosa dalla linea dello Jonio e si attacca alle argille dei calanchi e si accovaccia sopra le selci delle fiumare.