Arzura 2
di Gioacchino Criaco
I sassi del fiume proiettano fumate tremolanti, ci si aspetta che aprano bolle e poi le scoppino come le sovracoscia di pollo adagiate sul fondo della teglia dentro al forno. La nuvola di polvere si forma all’improvviso, un refolo impazzito per il caldo, gira in tondo, indecisa se sputare fuori cavallerizzi messicani con cartuccere e fucili, un bandolero stanco inseguito dalle mosche o il pick up col Mayo e il Machico che sparano all’impazzata per sfuggire alle giubbe blu della DEA.
Un fiume secco non è un fiume è la muta rinsecchita di una serpe d’acqua, un ossimoro direbbero i colti. Armonica e Cormac si passerebbero di bocca un mezzo Toscano, o altro, sputerebbero le briciole del tabacco, “è una fiumara calabrese”, rivelerebbero guardando la ghiaia far evaporare la boccata scura, “la garanzia che l’epica non finirà mai, pure se le Colt stanno in mano a gente come Giorgia ed Elly”.
Guardo il deserto e lo posso giurare: questo posto è stato un covo di vita, il regno dei senza terra. Una volta il letto era più basso di molti metri, con un lunghissimo binario di gabbie di ferro scintillante che faceva da guida a un flusso fresco, trasparente dalla primavera in avanti e intriso dell’umore dei monti dopo l’autunno.
I contadini finita l’estate svuotavano le gabbie dalle pietre e le riempivano dopo che le piene autunnali avevano cosparso gli argini col fiore della terra di montagna. Gli orti, vulcani che rombavano come dall’altra parte del mare, in Sicilia, dalle loro bocche esplodevano frutti gialli, verdi, arancio; variopinti e canterini più dei cardellini al tempo dell’amore, e a casa riempivano le tavole del sapore dei boschi.
I poveri, come sempre maggioranza, si prendevano in prestito la terra dalla fiumara, la tenevano da marzo a settembre e gliela ridavano con solo un “tante grazie”. Le donne ci lavavano le coperte di canapa, di lana, di ginestra o di seta brustu che avevano riscaldato i letti umidi dell’inverno, le stendevano sui sassi neri e rosa per caricarsi di un sole da spalmare sui letti dei figli a protezione dall’asma.
I ragazzini si affidavano alla corrente che come un nonno nei giorni di festa regalava loro infiniti giri, senza bisogno di pagare il biglietto come nei lunapark che arrivavano in paese per le feste patronali.
I Locridei che in diecimila avevano abbattuto duecentomila Crotoniati, bloccarono nel fermo immagine di Riace i Dioscuri per ringraziarli dell’aiuto e costruirono “Mastre” per dare a tutti l’acqua degli Dei, il sangue del Sagra. Il Machico si spara in fronte da solo, il Mayo si lascia catturare e promette di impiccarsi in un carcere americano. Le bolle delle sovracosce crocchiano lanciando olio rovente sulla 106. La Sfinge di Reggio Calabria passa casa per casa a verificare la tenuta dei rubinetti. Al distributore della Caltex con un pieno danno gratis una bombola di gas, un moretto della Gelca e una verdolina della Forst.
La Mastra sul Sagra è di Paolo Fragomeni