Caso Giletti: l’autista di Riina, Delfino e i misteri del Lago d’Orta

(DI GIUSEPPE PIPITONE – ilfattoquotidiano.it) – Dice Massimo Giletti che Salvatore Baiardo gli parlò dell’arresto di Balduccio Di Maggio. Prima di fargli vedere la foto in cui, a dire di Baiardo, compaiono Silvio Berlusconi, Giuseppe Graviano e il generale Francesco Delfino, l’uomo che ha “predetto” la fine della latitanza di Matteo Messina Denaro gli parlò di un altro arresto clamoroso: quello dell’autista di Totò Riina, l’uomo che trent’anni fa portò i carabinieri a prendere il capo dei capi di Cosa nostra. La possibile esistenza del fantomatico scatto, su cui si sono concentrate le ricerche della Dia, potrebbe illuminare di una luce nuova alcune delle vicende più misteriose della stagione delle stragi. E non solo perché potrebbe provare i rapporti tra Berlusconi e il boss di Brancaccio, mai dimostrati e sempre negati dall’uomo di Arcore.

In questa vicenda della foto, infatti, s’inserisce un personaggio controverso: il generale Delfino, processato e assolto per la strage di Brescia, esperto di rapimenti nella Milano degli anni 70, poi condannato per truffa nella vicenda Soffiantini. Nel suo curriculum anche l’esperienza come unico agente segreto italiano a Londra, subito dopo la morte di Roberto Calvi nel 1982. Dieci anni dopo va a comandare i carabinieri in Piemonte, dove ha una splendida villa a Meina, sul Lago Maggiore. In quella primavera del ’92, come ha scoperto Enrico Deaglio, i personaggi di questa storia stavano tutti lì: la dimora del generale, infatti, dista appena una ventina di chilometri dalla gelateria di Baiardo a Omegna, sul lago d’Orta, dove all’epoca si muovevano i fratelli Graviano. Ad appena 15 chilometri, invece, c’è Borgomanero, dove aveva trovato riparo Di Maggio, fuggito dalla Sicilia per evitare di farsi ammazzare da Giovanni Brusca. È in un’officina del paese in provincia di Novara che arrivano i carabinieri, allertati da una soffiata su un traffico di stupefacenti: non trovano droga, ma trovano Di Maggio. Secondo la versione ufficiale è l’8 gennaio del ’93: il mafioso chiede subito di parlare con Delfino e a lui racconta che sa come arrivare a Riina. Un vero colpo di fortuna per il generale che pochi mesi prima aveva voluto incontrare Claudio Martelli, per fargli una promessa: “Glielo faccio io un regalo di Natale, le portiamo Riina”. Il resto è storia: Di Maggio viene portato a Palermo, dove il 15 gennaio – poco dopo Natale – finiscono i 25 anni di latitanza del capo dei capi.

Davanti ai pm, però, Giletti racconta una versione diversa: “Baiardo sosteneva che Di Maggio fosse stato arrestato intorno al 26 dicembre 1992 e non il 7-8 gennaio 1993, e che una persona molto importante delle istituzioni lo aveva avvisato in questi giorni di festa dell’arresto, tant’è che lo disse subito a Graviano”. Chi era questa persona delle istituzioni? “Abitava vicino al lago d’Orta”, ha detto il conduttore, riportando le parole di Baiardo. Che dunque ci ha tenuto a retrodatare l’arresto di Di Maggio, esattamente come aveva già fatto Graviano nel 2017, quando lo intercettano in carcere, e poi nel 2020, al processo ’Ndrangheta stragista. Davanti ai pm di Reggio Calabria, il boss ha detto di essere stato a conoscenza della presenza di Di Maggio nella zona del lago d’Orta. Lo sapeva perché Balduccio era scappato dalla Sicilia per fuggire da Brusca, con cui i Graviano non hanno mai avuto un buon rapporto: il boss ha sostenuto di essere stato lui a trovare un rifugio a Di Maggio a Borgomanero. E si ricorda bene la notte dell’arresto, che era “prima del Veglione di Capodanno”: avevano fatto le ore piccole giocando a poker, poi Baiardo era andato a comprare la colazione. Al ritorno aveva annunciato: “Lo sapete che hanno arrestato Di Maggio? Sta parlando e lo tengono qui, in una villa di Omegna”. Che ne sapeva Baiardo? Al processo Graviano non parla di nessuna “persona importante delle istituzioni”, ma dice solo che “Omegna è un paese piccolo, tutti sanno tutto”. A quel punto che ha fatto lui? Perché non ha avvertito Riina, con il quale aveva un rapporto quasi filiale? Su questo passaggio le versioni divergono. Intercettato in carcere il boss sostiene di avere “fatto sapere subito” la notizia a Palermo, ma per qualche motivo non gli diedero retta. A sentire quello che Baiardo ha detto a Giletti, invece, la vicenda andò diversamente. In un primo momento Graviano gli ordinò: “Domani devi partire per Palermo e avvisare lo zio Totò”. Ma il giorno dopo, il boss “cambiò idea e non lo fece più partire”. Per quale motivo? E come mai pure Graviano rimase a Omegna, nonostante all’epoca fosse latitante? Ai pm che gliel’hanno chiesto, ha risposto così: “Avevo una copertura favolosa”.

Che sulle rive del lago d’Orta possano esserci i segreti delle stragi sembrava averlo intuito anche Gabriele Chelazzi, il pm di Firenze che indagava sulle stragi prima di morire d’infarto nel 2003. Il 24 aprile del ’97 il magistrato sta interrogando Di Maggio ed è particolarmente interessato al periodo trascorso dal pentito nel Nord Italia. Gli spiega di avere saputo da Brusca che i Graviano sapevano della sua presenza in Piemonte: lo avevano saputo da un tale “di origine palermitana, che faceva il gelataio lì, a pochi chilometri da Borgomanero”. Poi il pm torna a chiedere a Di Maggio (lo aveva già fatto due anni prima) se conosce un tale che si chiama Baiardo. “Mai sentito, mai conosciuto”, risponde il pentito. Chelazzi ne prende atto, ma sottolinea come molte delle persone citate nel verbale abitino “a Novara e provincia, quindi si continua a girare intorno alla Regione, a quel territorio”. Stavano tutti lì, affacciati sul lago nella stagione delle bombe.