Catanzaro. La Cassazione chiude il lavoro investigativo della Dda sui Lobello: 25 appalti pubblici “truccati”

Diventano definitive le condanne per gli imprenditori Lobello. La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibili i ricorsi confermando quindi la sentenza che era stata emessa dalla Corte d’Appello di Catanzaro nel marzo 2023. In particolare Antonio Lobello è stato condannato a tre anni di reclusione e 5.666 euro di multa, Daniele Lobello a tre anni e quattro mesi oltre a 6mila euro di multa, infine Giuseppe Lobello ad otto anni e dieci mesi di reclusione. Secondo gli inquirenti grazie ad un sistema di società, formalmente intestate a terzi ma tuttavia gestite dai Lobello, avrebbero cercato di sottrarre il proprio patrimonio da possibili sequestri dopo che, tra l’altro, alcune loro società erano state attinte da interdittive antimafia emesse dalla Prefettura. Dalle investigazioni dei finanzieri, che si sono avvalsi di intercettazioni e dichiarazioni di collaboratori di giustizia, sarebbe emerso un legame mantenuto nel tempo dalla famiglia Lobello con il clan Mazzagatti di Oppido Mamertina, ma anche il rapporto con il clan Arena e altre cosche del crotonese, tra cui quella riconducibile a Nicolino Grande Aracri. Nel maggio 2021, i finanzieri, coordinati dalla Dda, hanno eseguito un provvedimento di sequestro preventivo di beni per un valore di oltre 200 milioni di euro nei confronti dei tre imprenditori.

Secondo i giudici della Cassazione le sentenze di primo e secondo grado, «in base alle intercettazioni, oltre che alle dichiarazioni dei diversi collaboratori di giustizia, hanno accertato che il gruppo imprenditoriale Lobello, costituito da Antonio Lobello e dai due figli, Daniele e Giuseppe Lobello, fosse in stretta cointeressenza con la ‘ndrangheta locale». La ricostruzione della Suprema Corte parte dal 2007 quando la famiglia Lobello venne coinvolta nell’inchiesta “Mafia e appalti a Catanzaro”, poiché avrebbe avuto «uno stretto legame con contesti ‘ndranghetisti e alcune istituzioni del catanzarese». Nelle intercettazioni di quel procedimento non solo era emerso che il gruppo imprenditoriale Lobello «risultava in difficoltà per il rilascio delle certificazioni antimafia, ma era in stretto rapporto con la cosca ‘ndranghetista facente capo a Mazzagatti». A partire da quel momento secondo i giudici sarebbe iniziata la frantumazione societaria delle aziende tramite intestazioni fittizie utili ad aggirare i controlli antimafia.

Sul reato di concorso esterno in associazione mafiosa contestato a Giuseppe Lobello, la Cassazione conferma la ricostruzione fatta dalla Corte d’Appello: “Un imprenditore colluso postosi a disposizione, negli anni, di più gruppi di ‘ndrangheta che si erano spartiti il territorio, sia per evitare danni alle aziende del gruppo, sia per essere preferito ad altri nel mercato calabrese, come comprovato dall’intero sistema di intestazioni fittizie articolatosi nell’ambito del proficuo contesto degli appalti pubblici”.

I giudici capitolini sottolineano anche che “le plurime dichiarazioni del collaboratore di giustizia Santo Mirarchi, secondo cui Giuseppe Lobello per gli Arena era un imprenditore intoccabile e collettore delle estorsioni nel Catanzarese, erano state confermate sia dalle intercettazioni che dagli altri collaboratori”.

L’ultimo verdetto della Cassazione chiude un lungo lavoro investigativo della Dda di Catanzaro, iniziato nel 2007 con l’inchiesta “Mafia e appalti” (poi archiviata) e proseguita con il fascicolo Coccodrillo. E’ lungo l’elenco dei lavori pubblici su cui le imprese riconducibili ai Lobello sono riusciti a mettere le mani. Anche il calcestruzzo per costruire la variante della statale jonica 106 è arrivato dal gruppo Lobello. Così per i lavori per la funicolare di Catanzaro e ancora prima per la ristrutturazione di Corso Mazzini, il porto nel quartiere Lido, la strada provinciale 186, e poi ancora lavori effettuati per la Sorical. Gli investigatori della Guardia di Finanza hanno contato almeno 25 appalti pubblici negli ultimi anni. Fonte: Gazzetta del Sud