Cetraro, cosa c’è dietro l’omicidio di Alessandro Cataldo (di Saverio Di Giorno)

di Saverio Di Giorno

Non è mai una questione “loro”. Un regolamento di conti interni mai si richiude su stesso.  L’omicidio di Alessandro Cataldo, 46 anni, rischia di venire troppo velocemente ripiegato nelle trame della cronaca. Invece occorre prestare un po’ di attenzione.

La violenza non è che una delle tante declinazioni possibili del Potere, una desinenza da aggiungere, ma solo quando occorre. E ogni Potere per proseguire ha i suoi riti, i suoi codici. E allora occorre prendere il vocabolario di violenza che in questi ultimi anni si è costruito e provare a decriptare.

Freddato davanti a una pizzeria di via del Porto. Un omicidio da manuale e le regole del manuale richiedono studio delle abitudini: operazione veloce, fulminea. A distanza ravvicinata di chi, quindi, sa cosa vuol dire ammazzare, non un ragazzino. E così è stato. Il killer, il complice, il mezzo pronto e pochi istanti. Poi la semiautomatica viene abbandonata: non sparerà più e probabilmente poco o nulla aveva sparato prima. Solo per l’operazione. Una cosa da manuale, da vecchia scuola: da organizzazione.

Un omicidio di cui sicuramente si è discusso in una riunione, per il quale si è fatto arrivare un aiuto esterno oltre all’arma. Per il quale c’è stato studio e appunto, organizzazione. Questo è il primo fatto che dice l’omicidio. A Cetraro – che per anni ha cercato forsennatamente da togliersi di dosso la nomea di feudo del clan Muto, di roccaforte della ‘ndrangheta – non c’è semplice criminalità, c’è ancora organizzazione. Premeditazione. E questa organizzazione fa di tutto per dimostrare di sapersi muovere, di saperci fare come la vecchia scuola.

Perché proprio a Cetraro dove ancora sono visibili i resti del locale “più forte del Cosentino”, che partecipa alle riunioni importanti, che smercia rifiuti e ammazza politici? Il fantasma di Losardo ancora è pronunciato sottovoce. Proprio nella cittadina che ha provato – sinceramente? – a darsi una nuova immagine vicino ai vecchi mausolei (La Perla), si è continuato a sparare e intimidire. Ma stavolta c’è qualcos’altro. Da tempo si parla di un clan in mano a reggenti incapaci, di un Muto in torre d’avorio incapace di incidere (e viene voglia di immaginarlo divertito mentre legge poveri cronisti che provano a dare ordine a quanto accade). Lo si è visto sulla costa in queste estati: dalla Campania o da Cosenza scorribande, vere e proprie invasioni nel mercato della droga lasciato all’offerente più forte. Nuovi gruppi di fuoco che si danno al terrore più che al controllo e si incontrano sulle tangenziali.

Portare il fuoco e il sangue in casa però è un altro paio di maniche. Anche il luogo parla: significa dimostrare che non si è più in grado di controllare le strade, neanche quelle vicine. Che sfuggono informazioni, che i nuovi sono capaci, sicuri delle loro mosse e probabilmente con altre coperture criminali (e sì, caro lettore divertito). Fosse stato uno sgarro da punire allora la vittima sarebbe sparita dalle strade e tutti avrebbero saputo senza bisogno di sangue. Questo invece è un atto di guerra e il sangue era necessario.