Ciao Carmelo Miceli. Storia di una grande carriera: gli 11 anni di Lecce e la Serie A con Maradona e Zico

Tra i cosentini che sono arrivati al grande calcio senza passare dal Cosenza (e purtroppo sono stati tanti) un posto di rilievo spetta di diritto a Carmelo Miceli, scomparso ieri prematuramente e all’improvviso a 67 anni. Miceli era un libero roccioso e tenace, che ha saputo costruirsi una carriera di prima grandezza diventando una bandiera del calcio leccese. I numeri, come sempre, non mentono mai: 42 presenze e 2 reti in Serie A, 350 presenze in Serie B tra Monza, Lecce, Ascoli e Catanzaro nell’arco di 14 anni pieni di soddisfazioni.

Stiamo ricostruendo la carriera di Carmelo Miceli attraverso una vecchia intervista. Nella prima parte abbiamo scritto dei primi maestri, della militanza a Rende e del passaggio al calcio professionistico. Oggi la parte più bella, quella degli 11 campionati con il Lecce, squadra con cui ha conquistato la Serie A e della quale è diventato una bandiera.

1980/81: a Lecce arriva Gianni Di Marzio.

“Uno degli allenatori più grintosi che ho mai avuto. Ci insegnava i trucchi del mestiere per arrangiarci nelle situazioni difficili. Del resto non potevamo competere con gli squadroni che avevano speso miliardi per attrezzare le loro formazioni e dovevamo fare di necessità virtò… Alla fine ci siamo salvati e abbiamo ripetuto l’impresa anche l’anno successivo, ancora con Di Marzio in panchina. Io ho giocato 35 partite nella prima stagione e 28 nella seconda. Ormai stavo diventando un veterano della Serie B”.

1982-83: tocca a Mariolino Corso.

“Anche di lui conservo un ottimo ricordo. Quell’annata per me ha rappresentato la definitiva consacrazione tecnica. Non ero più soltanto il classico libero che pensava solo a spazzare la sua area di rigore e a chiudere gli spazi, ma riuscivo anche a impostare la manovra da dietro e Corso mi incitava a farlo sempre più spesso. Ci siamo salvati tranquillamente e ho giocato 36 partite su 38”.

1983-84: Eugenio Fascetti.

“La società aveva deciso di puntare alla Serie A e aveva chiamato Fascetti proprio per cercare il colpaccio. Il mister sapeva leggere come pochi le situazioni tattiche che cambiavano durante la partita e ne inventava sempre qualcuna in più dei suoi rivali. A un certo punto per me si era prospettata la possibilità di passare al Napoli. Si era infortunato Krol e Ferlaino cercava un libero di sicuro affidamento e che sapesse anche impostare l’azione. Ma mi cercavano anche Lazio e Avellino, sempre in Serie A. Mi ricordo che Bob Lovati aveva scritto relazioni molto lusinghiere sul mio conto. Cataldo però fu irremovibile e Fascetti era perfettamente d’accordo con lui. Arrivammo al quarto posto, a soli tre punti dalla Serie A ma ormai eravamo maturi per arrivarci. Nel corso di quella stagione morirono in un drammatico incidente stradale i miei compagni Lo Russo e Pezzella. Fu una tragedia tremenda”.

L’anno giusto per la Serie A sarà il 1985.

“Abbiamo indovinato tutto. Un campionato perfetto. Siamo stati sempre nelle prime posizioni, abbiamo rincorso a lungo il Pisa e alla fine siamo arrivati insieme al primo posto. Ho giocato tutte le partite, ho anche segnato tre gol ed ero il capitano della squadra. Un’annata splendida. Mai come in quella stagione riuscivo anche a scendere sotto porta sui calci d’angolo e sui calci piazzati e trovavo la porta.

Iurlano e Cataldo avevano costruito una famiglia prima ancora di una squadra di calcio. Era il Lecce dei fratelli Stefano e Alberto Di Chiara, dei portieri Pionetti e Negretti, di Enzo e Miceli (sorride, ndr), di Vanoli ed Ezio Rossi. Di Orlandi, Cipriani e Paciocco. Di Raise e Palese. E poi c’era il cuore leccese rappresentato da Claudio Luperto, Robertino Rizzo, Nobile, Levanto e Miggiano. Il Lecce chiuse la stagione al primo posto con 50 punti, a pari merito del Pisa. La terza squadra promossa in A fu il Bari. Il capocannoniere del Lecce fu Ricardo Paciocco con 9 gol, seguito da Loriano Cipriani con 8, Albertino Di Chiara con 6; Miceli (sorride ancora, ndr) ed Ezio Rossi con 3, Enzo con 2 e Vanoli, Raise, Orlandi, Palese e Rizzo con una. In città e nel Salento fu un’eruzione di gioia che durò settimane.  Le vie della città imbandierate da giorni per un traguardo storico. Vessilli giallorossi in ogni angolo della città barocca. Non si parlava d’altro”.

“Purtroppo è andata male, siamo retrocessi subito. Ero riuscito ad arrivare nella massima serie a 27 anni, potevo farlo già 5 anni prima ma ero contento lo stesso. Ho esordito al “Bentegodi” di Verona. Com’è stato l’impatto? Tra Serie A e Serie B c’è grande differenza a livello tecnico. Ti faccio un esempio: se in Serie B su 10 occasioni da rete in una gara prendi solo un gol, in Serie A ne becchi almeno tre. Non ti perdonano niente. Ci sono grandi Campioni. Negli ultimi 16 metri senti che cambia tutto, come dal giorno alla notte… Siamo partiti male, la squadra era troppo inesperta e non è stata potenziata come doveva. Non potevano bastare gli argentini Barbas e Pasculli, che pure erano bravi. Sì, poi sono arrivati Gigi Danova e Franco Causio ma ormai era troppo tardi.

Ma vi siete tolti uno sfizio incredibile: far perdere lo scudetto alla Roma.

“E come faccio a dimenticarlo? La Roma era lanciatissima, lo scudetto poteva soltanto buttarlo via con un “suicidio”. Noi siamo arrivati all’Olimpico che eravamo già spacciati ma non per questo abbiamo rinunciato a giocare la nostra partita. Lo stadio era bellissimo, il tifo della Curva Sud impressionante. Ho giocato una delle più belle partite della mia carriera e abbiamo vinto 2-3. Non vi dico quelli della Roma… E il pubblico? Ammutolito. L’avevano fatta davvero grossa…”.

E la settimana dopo hai segnato il tuo primo gol in Serie A alla Juventus.

“Beh, la nostra incredibile impresa aveva spianato la strada per lo scudetto proprio alla Juventus. Abbiamo provato in tutti i modi a ripeterci, anche perché giocavamo in casa, ma stavolta l’effetto sorpresa non ci è riuscito. Ho segnato di testa, sugli sviluppi di un calcio d’angolo. Quell’anno ho giocato 27 partite su 30 e ho indossato sempre la fascia di capitano. Ho incontrato Maradona, Careca, Zico, Platini, Boniek… E’ stato bellissimo. Il massimo per chi ama il calcio”.

Chi ti ha dato più emozioni?

“Maradona e Zico. Alla pari. Capisci che sono fuoriclasse già da come camminano, da come cercano il pallone, da come lo accarezzano. Sono nati già così”.

Sei rimasto ancora a Lecce anche nella stagione successiva.

“Sì, un altro anno. Abbiamo perso la Serie A solo agli spareggi contro il Cesena. Quell’anno ho conosciuto da vicino un altro grande allenatore, Carletto Mazzone, che aveva sostituito Santin”.

Poi è arrivato l’Ascoli.

“La “scusa” per tornare in Serie A… Mi ha voluto Ilario Castagner e la società ha detto sì allo scambio con l’attaccante Perrone ma non è stato un anno fortunato. Mi sono infortunato a un occhio, il mister ha voluto affrettare i tempi del mio recupero e le cose non sono andate come dovevano. Per fortuna alla fine mi sono ripreso bene. Ho chiuso con 15 presenze e 1 gol, il secondo in Serie A, contro il Pisa”.

Siamo al campionato 1988-89. Il Cosenza era appena tornato in B e a quanto pare ti cercava.

“Ad Ascoli non avrei trovato più spazio e avevo chiesto di essere ceduto. A Cosenza dopo la cessione di Giovanelli, non c’era un libero di ruolo. Mi sembra che adattarono prima Castagnini e poi De Rosa e Lombardo. Non so perché la trattativa non è andata in porto. So soltanto che avrei voluto giocare con tutte le mie forze con la squadra della mia città. E invece a novembre sono finito al Catanzaro di Tarcisio Burgnich. Non siamo stati bravi come il Cosenza, che ha sfiorato di un soffio la promozione, ma ci siamo salvati senza affanni. L’anno successivo invece siamo retrocessi e io in pratica ho smesso di giocare”.

Siamo alla carriera di allenatore.

“Dal 1991 al 1994 ho lavorato nel settore giovanile del Cosenza. Finalmente… Ho curato gli Allievi Nazionali e ho avuto i vari Stefano Fiore, Franco Florio, Giovanni Paschetta, Salvatore Miceli, Stefano Morrone, Fabio Di Lauro e Mario La Canna. Una nidiata eccezionale. Loro ci hanno messo il talento, per carità, ma anch’io ho cercato di dare loro un’impronta. Per esempio, per me Fiore è sempre stato un centrocampista centrale, un regista. Sono d’accordo col suo papà…”.

L’ultimo pensiero di questa intervista, realizzata nel 2006, era stato per il figlio Mirko, che all’epoca aveva 16 anni e giocava nel settore giovanile del Catania, 

“E’ difensore centrale come me. Si è fatto le ossa nella scuola calcio del Real Cosenza, sotto lo sguardo attento di Vincenzo Perri, che mi voleva alla Popiliana quando ero ragazzino…”. Oggi Mirko ha 20 anni in più e una dignitosa carriera da “libero”, non straordinaria come quella di papà ma piena di squadre importanti: Varese, Olbia, Viterbese, Sambenedettese, Avellino, Francavilla, Taranto e ancora oggi a Monopoli. A Mirko e a tutta la famiglia Miceli il nostro più grande abbraccio.