di Alberto Laise
Le due parole chiave sono RICATTO e SVILUPPO.
Le condizioni della nostra terra sono note a tutti. Fragilità dell’economia, condizioni per i lavoratori che sfociano nel “nero” o nel sottopagato con negazione sistematica dei diritti, mancanza congenita di infrastrutture adeguate che ne permettano uno sviluppo effettivo e positivo e che mettono l’intero territorio fuori dai grandi circuiti commerciali e di distribuzione.
Ora appare, o dovrebbe apparire chiaro, che se si vuole intervenire seriamente dal punto di vista occupazionale e di crescita economica del territorio, si dovrebbe intervenire a priori su queste debolezze. Pensare che, al contrario, non modificando quei fattori, un qualsiasi investimento cambi le cose è quanto meno azzardato.
Quindi l’effettivo SVILUPPO del territorio, che è una condizione necessaria per il bene collettivo, dev’essere accompagnato da fatti concreti e certi che mutino e migliorino le condizioni esistenti.
Ora che un gruppo di ragazzi, pilotati da gente senza scrupoli, i sindacati, le forze politiche ed economiche, si lancino in un elogio sperticato sulle proprietà taumaturgiche della Baker&Hughes ha un non so che di “coloniale”.
In Italia non esiste un solo sito produttivo posizionato sulle banchine portuali. In realtà è la stessa legge ovvero i Piani Regolatore dei porti a vietarlo. La normalità è che i siti di produzione stiano nelle zone industriali, spesso retrostanti al Porto (guardacaso proprio come Corigliano-Rossano), e da lì si creino le infrastrutture che permettano la movimentazione delle merci. Ad esempio a Gioia Tauro, caro Agostinelli – rappresentazione plastica di cosa sia un ascaro di corte – , è così. Perché ciò non può avvenire a Corigliano-Rossano? Perché da noi si deve aprire una discussione sulla base che, siccome siamo dei poveracci senza futuro e senza lavoro, dobbiamo subire il RICATTO economico e psicologico del capitale, della politica, dei sindacati?
Un RICATTO che parte dall’assioma, falso, che l’investimento porterà benessere per tutti e ben 200 posti di lavoro… ma dove? Ma come? Ma quando?
I posti di lavoro, ammesso che siano 200, riguarderà profili altamente specializzati e che, in gran parte, già potrebbero essere nei ruoli dell’azienda. Quelli che potrebbero essere assunti sul territorio occuperanno i settori dei sottoservizi (mensa, pulizia, sorveglianza ecc.) e verranno sicuramente appaltati o a ditte esterne (con stipendi che tutti conosciamo) o a cooperative “in house” alle condizioni medesime. E poi la produzione? Con chiarezza e senza ambiguità si può sapere a) cosa si produrrà e come si produrrà all’interno degli stabilimenti? Per quanto tempo sarà garantita la produzione? Su chi ricadranno i costi dello smantellamento del sito se dovesse chiudere?
Si aggiunga poi che all’interno della legge che regolamenta l’uso “industriale” delle banchine portuali si specifica che queste sono per movimentazione merci. Stop. Inoltre, in altri articoli, specifica che: l’attività dev’essere normata all’interno del Piano Regolatore Portuale. Che le concessioni sono sul demanio e sono a tempo ed inoltre vanno messe a bando e non date con affido diretto. Che lo stesso Piano Regolatore deve definire la destinazione d’uso del Porto e nel caso specifico il nostro non è nella categoria B (industriale-petrolifero). Tutto ciò a Schiavonea non viene rispettato. Perché?
Questi non sono argomenti da poco. Abbiamo l’esempio di Crotone che deve essere sempre presente. Una produzione industriale fallimentare, proprio perché priva di basi solide su cui crescere e fuori dai grandi circuiti economici che a distanza di decenni resta lì a marcire.
Un’area industriale che abbia un senso compiuto dovrebbe avere il cosiddetto indotto, che crea le condizioni di sviluppo affinché sia quella la vocazione del territorio. Allora anche la destinazione del Porto potrebbe essere messa in discussione. Ma se qui, dietro il Porto, non c’è nulla se non attività commerciali o di trasformazione agroalimentare… mi spiegate il senso dell’affermazione “sviluppo per il territorio” legato all’investimento della Baker&Hughes?
La vocazione del territorio è agricola e turistica. I numeri degli occupati in quei settori sono decine di volte superiori ai 200. Il ritorno economico di quelle attività è mille volte superiore a quello previsto, ma non dimostrato, della Baker&Hughes. Si pensi solo agli acquisti delle merci, a dove quei lavoratori oggi – non domani – spendono i loro salari.
Lo SVILUPPO del territorio allora, se vi sta a cuore, è in quell’economia che già esiste, che va sostenuta, potenziata, protetta e coniugata con l’ecosistema dell’intera Piana di Sibari… altro che occupazione coloniale. Altro che RICATTO ad una popolazione che ha una sua dignità.
E se qualcuno ha già venduto ciò che non gli appartiene… beh deve essere il Sindaco in primis, a denunciare la cosa a chi di competenza. Non è normale che l’autorità portuale, fottendosene allegramente di ciò che pensa la città e l’intera Piana, abbia deciso lui cosa deve accadere nel Porto. Se lo fa o è in malafede o è un cretino o è uguale a chi a Genova finisce in galera.
E la politica locale? Indegna. Tutta. Nessun partito ha fatto una discussione pubblica. Nessun partito ha avuto la dignità di aprire le proprie sedi e ascoltare… Tutti hanno preferito trattare al buio. Vediamo se ci scappa un osso… A destra lo fanno con il bene placido di Governo e Regione… A sinistra lo fanno senza far rumore perché meno sono a discutere più briciole portano a casa.
E la città? Al momento conosce solo la voce del Sindaco, per fortuna, che dice due cose, persino banali, di buonsenso: fate il Piano Regolatore del Porto (che renderebbe impraticabile il progetto) e se volete investire andate nella zona di destinazione naturale dietro il Porto stesso.
Lo faranno? No. Sceglieranno – se la città non si arrende – di trovare altri siti e li, ben lontani dalle banchine, faranno ciò che fanno le aziende: penseranno ai loro interessi.
E quel giorno sarebbe bene che ogni cittadino se lo ricordi bene cosa ha detto ogni singola “autorità” del territorio su questa faccenda.