dalla pagina FB di Luigi Caputo
Oggi avresti 55 anni, cara, dolce Roberta. E invece… Sono passati trentasei anni. Trentasei anni di misteri, depistaggi, illazioni, supposizioni. Trentasei anni di indagini che brancolano nel buio, di aule di tribunale sempre troppo fredde… trentasei anni di vergogna. Ma anche trentasei anni di Solidarietà, quella con la S maiuscola, fatta con la gratuità del Bene, che, grazie alla tenacia illuminata di due genitori mai rassegnati alla disperazione, testimonia che quel fiore reciso a 19 anni continua ancora oggi a emanare il profumo delle cose belle. Un immenso dolore che si è trasformato in accoglienza. Un piccolo grande miracolo, nato dalla dolce ingenuità di una ragazza che in un giorno d’estate di trentacinque anni fa andava al mare, sorridendo, incontro alla vita…
(“…dalla dolce ingenuità dei tuoi anni,
tu sognavi nuove amicizie, nuovi amori,
eri in un’età senza dolori, senza affanni,
libri e musica della tua vita unici attori…”,
a #RobertaLanzino, #26luglio 1988)
COSENZA, I COLD CASE DEL PORTO DELLE NEBBIE: ROBERTA LANZINO
Sono passati trentasei anni: 26 luglio 1988-26 luglio 2024. L’omicidio della studentessa 19enne Roberta Lanzino, avvenuto sulla vecchia strada di Falconara, per quanto sia stato territorialmente di competenza della procura di Paola, è a tutti gli effetti un omicidio “cosentino”. Di conseguenza, ricade sotto la diretta responsabilità di quei magistrati corrotti del porto delle nebbie (il Tribunale di Cosenza per chi è nuovo di Iacchite’), che non fecero nulla per arrivare alla verità. Neanche dopo aver ricevuto un esposto anonimo con i nomi degli assassini. L’unico atto – frutto della mente perversa e diabolica dell’ultimo procuratore capo Mario Spagnuolo, alias il Gattopardo, oggi finalmente in pensione, allora 34enne sostituto procuratore – è stato quello di coinvolgere in questa vicenda la sua “creatura” ovvero il pentito Franco Pino, che ormai da più di un decennio crede di prendere in giro tutti raccontando versioni allucinanti sull’omicidio di Roberta, che sono state progressivamente e miseramente smontate pezzo per pezzo.
Dunque, non ci sono ancora colpevoli (e probabilmente non ci saranno mai) per l’omicidio di Roberta Lanzino. A trentasei anni di distanza, i responsabili dell’efferato delitto rimangono ancora senza identità. Lo ha deciso il 27 dicembre del 2017 la Corte d’Assise d’appello di Catanzaro, che ha confermato la sentenza di assoluzione per Franco Sansone, principale indiziato dello stupro e dell’omicidio della diciannovenne e per il padre Alfredo, imputato di lupara bianca. Entrambi chiamati in causa dal “solito” Franco Pino.
LA STORIA DI ROBERTA LANZINO
“La sua potrebbe essere soltanto la storia di un viaggio verso il mare, di un motorino e di un banale ritardo. E invece si trasforma in una storia terribile, angosciante. Misteriosa”.
Carlo Lucarelli “Blu Notte”
“Conoscere la verità in terra di omertà è un rischio, per questo hanno taciuto tutti coloro che immaginavano e sapevano. Ma hanno anche depistato coloro che, invece, nelle aule dei tribunali dovevano individuare i responsabili e assicurare giustizia”.
Francesco Forgione, ex presidente Commissione Antimafia
TRENTASEI ANNI DI VERGOGNA
E’ dal 1995 che Franco Pino è diventato un pentito o un infame, secondo il gergo della ‘ndrangheta e più in generale delle organizzazioni criminali, grazie soprattutto alla procura della Repubblica di Cosenza alias porto delle nebbie e ai due soggetti che rappresentano il peggio della magistratura corrotta della nostra comunità: Alfredo Serafini (passato a miglior vita) ma soprattutto Mario Spagnuolo, nominato incredibilmente procuratore capo a Cosenza.
Le rivelazioni “pilotate” e telecomandate di Pino, però, più che aprire scenari apocalittici di corruzione politica e di intrecci con pezzi deviati dello stato, sono servite a delegittimare processi pericolosi e, circostanza ancora più grave, a depistare le indagini dalla verità.
Abbiamo già visto cosa è accaduto per il delitto di Silvio Sesti e adesso vediamo cosa è accaduto per il delitto di Roberta Lanzino, la studentessa diciannovenne di Rende violentata e uccisa sulla strada impervia di Falconara Albanese il 26 luglio 1988 e i cui assassini non sono mai stati assicurati alla giustizia.
Come concordato, Roberta si sarebbe avviata verso la casa al mare di contrada Miccisi, tra San Lucido e Torremezzo, con il suo motorino Sì Piaggio blu seguita dall’auto dei genitori, Franco e Matilde. La ragazza non attende di partire con i genitori consapevole che l’auto del padre l’avrebbe raggiunta facilmente e in breve tempo.
La strada imboccata dalla giovane non è la strada statale 18, poco sicura per un motorino, ma la “strada vecchia” che porta al mare, quella che tutti chiamano “Falconara”.
Si perde. Chiede più volte indicazioni per tornare sulla strada giusta. Va avanti, torna indietro. Parla, poi, per avere informazioni a delle persone su un furgoncino, che più in là racconteranno d’aver visto un’auto, una Fiat 131, con due uomini a bordo che sembrava seguire la giovane studentessa e che si era accostata al motorino poco prima che i due sul furgoncino si allontanassero.
I genitori, dopo aver caricato la macchina di provviste e di un tavolino, lasciano Cosenza dirigendosi verso il mare con l’intento di riunirsi a Roberta già in viaggio sulla strada. I signori Lanzino si fermano dapprima da un fruttivendolo sul tragitto e poi presso una fontana pubblica per riempire dei bidoni d’acqua. Tappe che fanno perdere poco tempo ma che sommate si materializzarono in importanti minuti di ritardo nel raggiungere Roberta. I genitori iniziano a preoccuparsi. Sulla strada non c’è traccia della figlia. Ipotizzano che probabilmente sia già arrivata nella casa di contrada Miccisi. Giunti sul luogo però si rendono conto che la ragazza non è lì.
Il padre inizia una disperata ricerca, ritornando a Cosenza e controllando la strada che avrebbe dovuto percorrere la giovane studentessa. La madre, la signora Matilde, teme un incidente stradale. Vengono allertati gli ospedali per verificare eventuali ricoveri ma senza esito. Le ricerche continuano per tutta la serata e la notte. Il padre di Roberta, i carabinieri e gli abitanti setacciano l’intera zona. La “strada vecchia”, tortuosa e selvaggia, sembrava aver inghiottito la studentessa.
Poi, dopo la mezzanotte, sulle montagne di Falconara Albanese viene ritrovato il motorino che non appare incidentato e non risulta in panne. Ma dov’è Roberta? Il mistero è svelato a settanta metri di distanza. Il corpo seminudo di Roberta Lanzino è rinvenuto senza vita fra gli sterpi. I suoi effetti personali sparpagliati sul terreno. I suoi jeans sono stati tagliati per strapparli via. Roberta è stata picchiata brutalmente. Ha lottato con tutte le sue forze ma alla fine ha dovuto cedere sopraffatta da più assalitori. Per farla stare zitta le hanno messo in bocca due spalline da donna, che presto l’hanno soffocata e ne hanno causato la morte. Poi almeno due tagli alla nuca, con un coltello premuto contro il suo corpo mentre la violentano. Infine almeno tre coltellate. Una ferita alla gola le ha reciso la carotide e ha provocato un’imponente emorragia.
LA FARSA DELLE INDAGINI
Qualcuno probabilmente la stava seguendo. Le indagini si concentrano ben presto su questa misteriosa Fiat 131 gialla e portano a un muratore di San Lucido, proprietario dell’auto e con qualche precedente penale. Ma la pista non regge.
Successivamente irrompono sulla scena i fratelli Rosario e Luigi Frangella e il loro cugino Giuseppe Frangella. Gli atteggiamenti e le dichiarazioni dei tre contadini, residenti nella zona del delitto, non convincono gli inquirenti. Il principale è Rosario, affetto da disturbi psichici, sul quale vengono trovate delle macchie di sangue sui pantaloni. Sul luogo del misfatto viene ritrovato un fazzoletto da uomo azzurrino sporco, uno identico salterà fuori durante una perquisizione a casa di Giuseppe Frangella.
L’uomo presenta delle escoriazioni sulle braccia riconducibili a dei graffi che sostiene di essersi procurato durante il ritrovamento del motorino di Roberta. Nessuno però ricorda la presenza di Giuseppe Frangella in quel frangente. Franco Lanzino, recatosi presso l’abitazione di Frangella per chiedere se avesse visto la figlia, rimane colpito dall’ambiguo comportamento dell’uomo che suggerisce di cercare altrove.
Luigi Frangella, invece, dichiara di aver dato delle informazioni stradali a Roberta mentre stava lavorando nei campi e di aver visto il cugino Giuseppe transitare con il suo furgone subito dopo il passaggio della studentessa. Lo stesso Giuseppe Frangella afferma di aver notato entrambi i suoi cugini correre in forte stato d’agitazione nel tardo pomeriggio di quel maledetto 26 luglio.
I tre agricoltori sono accusati della violenza carnale e dell’uccisione di Roberta. Seguono concitate fasi giudiziarie con i tre imputati che si proclamano estranei alle accuse. Luigi, Rosario e Giuseppe Frangella saranno giudicati non colpevoli nei tre gradi di giudizio. Non sono stati loro ma è evidente che hanno visto gli assassini.
Le indagini scientifiche dell’epoca, condotte dalla Procura di Paola e affidate a uno dei peggiori magistrati d’Italia, Domenico Fiordalisi, sono gravemente lacunose, tardive e infruttuose e non permettono di individuare alcun indizio utile.
La violenza fu commessa lì o altrove? I medici legali opteranno per un luogo diverso da quello del ritrovamento: il posto è pieno di rovi e sul corpo non ci sono tracce di ecchimosi, di più la rescissione della carotide avrebbe procurato schizzi di sangue mai rinvenuti.
Qualcuno ha coperto? E se si, perché? La vulgata cittadina, come vedremo, disegna fin da subito gli identikit degli assassini dei piani alti, quelli ben schermati, della città o dei suoi dintorni. Ma la Procura di Paola ha clamorosamente sottovalutato questi indizi. E non solo!
I VESTITI DI ROBERTA E TELEFONO GIALLO
“… La scomparsa degli indumenti di Roberta da sempre ha costituito uno degli aspetti più inquietanti di questa vicenda. E non da oggi. Basti pensare che dei vestiti si iniziò a parlare nel lontano 1989. All’epoca, per la precisione in gennaio, Corrado Augias dedicò una puntata della sua fortunata trasmissione televisiva “Telefono Giallo” proprio al delitto Lanzino. La puntata si chiamava “L’ultimo viaggio di Roberta”.
Era in diretta e a un certo punto negli studi arrivò una telefonata anonima che raccontava come gli abiti della ragazza non fossero andati tutti distrutti, ma che si erano conservati maglietta e reggiseno. Un particolare che lo stesso Augias ricorderà in un’intervista a Repubblica il primo marzo del 1989 parlando dei successi della sua trasmissione che qualcuno in Rai voleva far chiudere. Ma anche questi pochi indumenti ritrovati non ebbero grande fortuna.
Nel lontano 1995 l’allora parlamentare Sergio De Julio presentò un’apposita interrogazione al ministro di Grazia e Giustizia dell’epoca. L’interrogazione era molto articolata ed evidenziava una serie di lacune che presentavano le indagini. Ma un passaggio si concentrava proprio sulla scomparsa degli indumenti indossati quel giorno dalla povera Roberta.
«Gli abiti della vittima (pantalone, maglietta, reggiseno, mutandine, scarpe, ecc.) – scriveva De Julio – furono dispersi dopo essere stati trovati sul luogo del delitto; soltanto due degli indumenti della vittima (maglietta e reggiseno) furono ritrovati dopo alcuni mesi ed affidati al perito nominato dal Tribunale di Cosenza, De Stefano dell’istituto di medicina legale dell’Universita’ di Genova; in sede di processo d’appello De Stefano dichiaro’ di aver buttato via gli indumenti della vittima ed i reperti con l’unica incredibile giustificazione di un trasloco (peraltro mai accertato) dei laboratori dell’istituto di medicina legale e della mancanza di spazio». Possibile che De Stefano sia stato così sciatto? La risposta del ministro fu molto generica…
Molti anni dopo, l’ex capo della Mobile di Cosenza, Stefano Dodaro, ha raccontato un particolare poco conosciuto sulla vicenda. Ha dichiarato che gli indumenti superstiti furono distrutti su ordine della Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro al termine del processo che vide poi assolti i fratelli Frangella. Non si capisce bene se l’ordine è contenuto già nella sentenza di assoluzione degli imputati o se con un’ordinanza successiva. Fatto sta che quegli abiti vennero distrutti e viene difficile capire il perchè la Corte decise la distruzione di una prova che avrebbe potuto essere decisiva…”
(Massimo Clausi, il Quotidiano della Calabria)
Poi, quando ormai nessuno credeva più di arrivare a nulla, ecco che le “cantate” di Franco Pino aprono nuovi scenari e fanno gridare alla verità tutti i cronisti di nera che pendono dalle labbra della Procura della Repubblica. E invece hanno fatto ancora una volta il solito buco nell’acqua. Ma nessuno di loro commentando la svolta nelle indagini ha fatto emergere la pressoché assoluta inattendibilità di Franco Pino. Che, beninteso, è certamente manovrato da qualche longa manus all’interno delle varie procure che lo utilizzano. Cosenza e Paola su tutte. Tanto, anche se racconta cazzate (o se gli dicono di raccontare cazzate) nessuno mai se ne lamenterà.
LA VERSIONE DI FRANCO PINO
E’ nel 2000 che Franco Pino e Umile Arturi (capo e braccio destro) rendono noto di essere informati di alcuni particolari sul delitto Lanzino dai boss di San Lucido Romeo e Marcello Calvano. Eppure il primo non ha mai confermato le circostanze riferite da Pino e Arturi e il secondo è stato ucciso nell’agosto del 1999.
L’inchiesta sul delitto Lanzino è stata riaperta circa sette anni dopo, nel 2007 e per istruire il processo si è dovuto attendere il 2009.
Nel 2012 Franco Pino ha riferito in aula di avere saputo quello che ha detto mentre era detenuto nel carcere di Siano a Catanzaro, nel 1995, da Romeo Calvano, un uomo fidato di San Lucido con il quale Pino aveva avuto rapporti stretti prima della detenzione.
Durante un colloquio in carcere, i due avrebbero parlato dell’opportunità di vendicare la morte di Luigi Carbone, definito “un lupo” da Pino per il suo modo di agire.
“Calvano – ha raccontato Franco Pino – disse che la vendetta non era da mettere in atto perché Carbone si sarebbe comportato da indegno partecipante all’omicidio di un suo cugino e alla violenza mortale su Roberta Lanzino insieme a Franco Sansone”.
“Prima venne ucciso il maresciallo Sansone della polizia penitenziaria – continua Pino -. Poi due pastori di nome Calabria e Sansone mentre nel frattempo era stata assassinata Roberta Lanzino. Poiché quest’ultimo fatto avvenne nella stessa zona e poiché vi era coinvolto Luigi Carbone mi trovai a parlare di questo episodio con i cugini Calvano con i quali avevo antichi rapporti di amicizia e comparaggio. Tanto Marcello quanto Romeo Calvano mi dissero che a compiere la violenza sessuale e l’omicidio di Roberta Lanzino erano stati Carbone e Sansone. Per quanto riguarda le modalità di questo delitto posso solo dire che fu un fatto casuale. La ragazza si stava infatti recando al mare con il motorino quando improvvisamente si trovò in contatto con Carbone e Franco Sansone, probabilmente perché caduta dal motorino o perché doveva chiedere un’informazione. Non so poi cosa sia scattato nella testa dei due autori, fatto sta che commisero l’omicidio. Romeo Calvano, quando ci incontrammo in carcere nel 1995, aggiunse pure che, collegato all’assassinio della Lanzino, c’era l’eliminazione di una signora, facente di cognome Genovese, che era a conoscenza di particolari sull’uccisione della studentessa. La morte della signora Genovese era da addebitare, a detta di Calvano, al timore da parte dei Sansone, che potesse parlare con le forze dell’ordine dell’accaduto”.
Nonostante Romeo Calvano, come accennato, non confermi un bel niente, si riaprono le indagini presso la Procura di Paola, dove il pm Domenico Fiordalisi sarebbe tornato a cercare la verità sulla morte di Roberta.
Secondo Franco Pino, dunque, si sarebbe trattato di un delitto occasionale senza indagati eccellenti e maturato in un contesto di violenza e di terrore oppresso da una cappa mafiosa.
La svolta arriva anche con la deposizione della confidente di Rosaria Genovese, che fugherebbe ogni dubbio circa i significativi collegamenti che legherebbero insieme qualcosa come sei omicidi.
Quello della giovane Roberta, la scomparsa dell’allevatore Luigi Carbone avvenuta nel novembre del 1989, la morte per strangolamento di Rosaria Genovese nell’aprile 1990, la morte del maresciallo della polizia penitenziaria Alfredo Sansone e dei pastori Libero Sansone e Pietro Calabria, i cui corpi trucidati sarebbero stati ritrovati a Ferrera di Paola nel marzo 1989.
Sembra che tutti fossero a conoscenza di dettagli dell’omicidio di Roberta e che per questo siano stati messi a tacere subito dopo quel delitto. Si sarebbe trattato, dunque, di un intreccio tragico di violenza e barbarie, forse per interessi economici legati a proprietà terriere e pascoli. Un intreccio che sarebbe degenerato in un progetto criminale di eliminazione di possibili testimoni scomodi.
IL CASTELLO D’ARGILLA
Ora, fermiamoci un attimo e riflettiamo. Ma davvero c’è stato qualcuno che, anche solo per qualche ora, ha potuto credere a una matassa così ingarbugliata e intricata da rasentare il grottesco o da sembrare una fiction?
E’ vero, ci viene raccontata una lunga serie di omicidi probabilmente anche concatenati tra di loro, ma il delitto Lanzino in tutto questo non c’entra veramente una mazza. E prima o poi questa colossale bugia fatta dire a Franco Pino non poteva non essere smontata
Ma riprendiamo il racconto della pantomima. La morale della favola delle “cantate” di Pino è stata il rinvio a giudizio di Franco Sansone, presunto esecutore materiale del delitto Lanzino, già detenuto per l’omicidio della casalinga Rosaria Genovese.
Il dibattimento in Corte d’Assise a Cosenza è cominciato nell’ottobre 2010. Intanto lo stesso Franco Sansone, imprenditore di Cerisano e proprietario del fondo rustico presso cui fu invano effettuato un sopralluogo per la ricerca del corpo di Luigi Carbone, è imputato del delitto Carbone insieme ad Alfredo e Remo, rispettivamente suo fratello e suo padre.
Due i testimoni fondamentali per questa riapertura di inchiesta oltre a Franco Pino: il fratello di Rosaria Genovese, Gennaro e il padre di Luigi Carbone, Carmine. Con tutta probabilità “ammaestrati” abilmente anche loro su quello che dovevano dire.
Poiché il processo era arrivato stancamente alla fine e si prospettava anche l’ipotesi di una clamorosa assoluzione di Franco Sansone, la magistratura ha deciso un altro finale. E così è spuntato questo Dna trovato addirittura sul terriccio che avrebbe dovuto dire la verità su Sansone. Alzi la mano chi non ha capito subito la manovra. Era (ed è) l’escamotage perfetto per far uscire Sansone, tra l’altro già carcerato e con trent’anni di pena da scontare, dalla vicenda. Tanto nessuno verrà a chiedere conto e i media si allineeranno a tutte le cazzate che continuano a raccontarci. Quel Dna non è suo. Una semplicità disarmante. Abbiamo scherzato.
Magari si poteva modificare il capo d’imputazione, con l’aggiunta al Sansone di altri, ignoti. Di più, il cambio di passo rispetto all’udienza preliminare affidata ad Eugenio Facciolla, magistrato con competenze nella gestione dei pentiti, poi trasferito, forse non ha aiutato.
Adesso, dopo sette-otto anni di fedeltà al pentito ecco scatenarsi la caccia alla verità, anzi a “ignoti”, come sentenziano dalla Procura di Paola. Con la massima rassicurazione, firmata dal numero uno Bruno Giordano, che “non si lascerà nulla di intentato”. Eh sì, a 28 anni di distanza dall’omicidio di Roberta, ci mancherebbe pure… Però dobbiamo essere fiduciosi. E noi lo siamo, eccome se lo siamo!
LA VERITA’ CHE NESSUNO DICE
E’ incredibile: oggi, come se niente fosse accaduto in questi ultimi dieci anni, dobbiamo dare credito a inquirenti che hanno ancora il coraggio di dirci che ripartiranno dalle ultime ore di vita di Roberta. E quindi dal percorso che quel maledetto giorno di fine luglio del 1988 stava seguendo con il suo motorino, le persone che ha incontrato lungo la via e con le quali si è confrontata quando si sarebbe accorta di aver smarrito la strada che da Rende la stava portando a Torremezzo, dove la stavano aspettando invano i suoi genitori. E dobbiamo addirittura sentirci dire che si starebbe stringendo al massimo il cerchio attorno a un gruppo ben individuato di persone e su cui si erano concentrate una serie di piste investigative delle prime ore.
E’ ovvio che nessuno di noi, comuni mortali, conosce la verità sul delitto Lanzino ma è evidente anche a chi vorrebbe mettere la testa sotto la sabbia che si stia coprendo qualcuno. Con tutta probabilità persone che hanno a che fare, chissà in quale modo, con i soliti pezzi deviati dello stato.
A Cosenza (e questo lo sanno anche le pietre, oltre ai bambini) girava una leggenda metropolitana secondo la quale Roberta è stata uccisa da alcuni giovani della Cosenza bene, forse figli di medici e avvocati in vista.
In una lettera anonima arrivata in Procura nell’immediatezza dell’omicidio, si facevano addirittura i nomi e i cognomi dei cosiddetti figli di papà. Ebbene, perché a nessuno è mai venuto in mente di fare delle indagini serie? Che senso ha, ventisette anni dopo, ridare fiato a queste voci, che magari saranno anche vere, ma che adesso servono soltanto a buttare fumo negli occhi della gente?
Quei nomi e cognomi della lettera anonima li conoscono in tanti. Non possiamo farli per ovvi motivi di opportunità ma possiamo certamente affermare e urlare (se possibile) che si tratta di figli di medici e avvocati. Che appartengono certamente a lobby di potere di questa città e magari a logge massoniche deviate. I signori inquirenti li conoscono benissimo, da ventisette anni. Ma non hanno mai mosso un dito contro di loro. Oggi improvvisamente dovremmo prendere atto che si sono svegliati?
E che dire dei “campioni” della cronaca nera cosentina che l’hanno subito bollata come depistaggio? In effetti, il vero depistaggio era ed è soltanto quello affidato al solito Franco Pino.
“Roberta Lanzino, Ragazza” è stato il primo fumetto italiano dedicato a una vittima della violenza maschile. La sua storia può essere quella di ciascuna di noi. Un classico caso di femminicidio.
Edito da Round Robin, sceneggiato da Celeste Costantino e disegnato da Marina Comandini, il fumetto si avvalse della prefazione dello scrittore Carlo Lucarelli (che si occupò del caso con Blu Notte su Raitre) e la postfazione di Francesco Forgione, ex presidente della commissione Antimafia.
Da questa vicenda sono nati la Fondazione e il Centro Lanzino, un fronte importante nella lotta contro la violenza sulle donne e nel mantenere viva la memoria di Roberta.