Cosenza, la storia racconta: “A’ fera è fera, nun’è nu mercatu!”

Gentile redazione, sono d’accordo con tutti quei cosentini che ormai da tempo notano la mancanza di legame tra la città e la Fiera di San Giuseppe (Quella Fiera scippata al centro storico) e tanto l’ho NOTATO che alla fine ne ho scritto un racconto dal titolo significativo: “il cavalluccio di caciocavallo”. Se vi fa piacere, vorrei inviarvi alcuni passi dove si narra della fiera di cinquant’anni fa.

Buon lavoro

Rita Fiordalisi

E noi siamo felici di ospitare su Iacchite’ questa bellissima testimonianza di Rita Fiordalisi tratta dal suo “Il cavalluccio di caciocavallo”.

cacio

Quannu vinia u tiempu da fera ‘e Cusenza, mia nonna chiamava le sorelle a raccolta, un invito a condividere un momento particolare della famiglia, dell’anno e della città.

Le chiamava per tempo, dava loro il -giusto tempo- Pi’ capiri chiru ca servia ara famiglia e ara casa loro. Sì! diceva mia nonna, ara fera si trovanu i migliori cosa, – e lo diceva con un’espressione di grande meraviglia. Ogni anno andava con lo scopo preciso di rinnovare cocci, pentole e stoviglie, ma solo quelli fatti a mano perché erano segno di grande qualità e maestria, ed era solito chiedere al marito:

“Nicò, ma i stagnini ci su st’annu?

Nicola, il marito, avvezzo alle richieste sempre pressanti della moglie, la guardava con occhi comprensivi e caritatevoli, cercando di soffocare l’istinto di rispondere con stizza e sdegno, mentre la piccola donna gli girava attorno e continuava a parlare a voce alta:

St’annu aiu i truvari chiri palette i fierru pi fa a pasta i casa, ca’ u miu se ruttu e mi ruvina tuttu u timpagnu!”

La fiera era un evento, in casa, tra i vicoli e nei quartieri, tra le vicine, saccenti e boriose donne era un chiacchiericcio stretto e costante, quel tipo di vocalizzo che faceva da sottofondo alla vita della città. E, le comari del mio quartiere non erano da meno, galline e papere nell’aia:

Iu vaiu sempre, ogni annu mi preparu na lista e’ cose accussi longa ca nun finiscia mai. Quannu a vida miu maritu sinni fuia, picchi dicia ca’ iu li vrusciu tuttu u mensile! Ma iu ciù dicu sempre ca nun’è accussì! picchi ara fera si trova ogni cosa nova! E po’, dicimu a verità!

A’ fera è fera, nun’è nu mercatu!”.

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Poi c’era quella che sapeva tutto ed andava per tempo, giusto per dire alle vicine ed alle comari:

“Iu ci sugnu stata, st’annu si trovanu cose nove, cose che venanu i fora, na meraviglia i’ robba!”

Mia nonna, tipo taciturno e poco avvezzo ai commenti, era solita ascoltare questo ciarlare allegro delle donne del vicinato, poi tornata a casa cominciava, con fare esperto, a guardare nei cassetti e dentro la credenza per valutare l’opportunità di un eventuale acquisto.

Poi, arrivava giorno 19 marzo, mio nonno aveva il compito di prendere le cognate al pullman, mentre la moglie si preparava, “pi nun sfigura’ cu ri suori!”

Ed ecco, dopo baci ed abbracci, le tre donne si avviavano verso la città vecchia.

Perché a fera si svolge da sempre là!

Dintra i vineddre, i viculi, dintra i chiazze di nà vota, tra le vecchie case dove si avverte ancora chiru adduru i’ viacchiu, dove vien voglia di ritrovare la vita e le abitudini di un tempo.

La fiera animava i luoghi e quest’ultimi davano anima alla fiera.

Gli oggetti sembravano trovare una simbiosi con le strade, con le facciate di vecchi palazzi ormai scolorite. Grossi vasi di terracotta rossa stavano allineati in bella mostra davanti un antico ed austero edificio dal colore sbiadito e scrostato dall’umidità che lasciava intravedere enormi blocchi di pietra arenaria, vicino erano poggiati piccoli e grandi otri di coccio che sostavano in attesa di essere venduti con a guardia, seduto su di un vaso capovolto,“nu’ guagliunu, cu’ due granni uòcchj nivuri nivuri” invitava a comprare con un forte accento siciliano. Appena un passo dopo, un enorme spiazzo ricoperto da “cistini, crivi, panari, salaturi, terraglie e vasellami, lame affilati e scupe e tutt’i tipi,”appena dopo un banco -moderno- con in bella mostra, stoviglie d’uso comune e quelli per le provviste d’inverno, e poi lungo il fiume Busento sostavano i venditori di merletti, fili e lana fina, e dietro i banconi, quasi a fare da spalliera grandi sacchi di iuta “cu ra lana pi fari i matarazzi“.

I venditori battevano i piatti sul bancone per attirare l’attenzione, a prova della solidità del prodotto urlavano e si chiamavano tra loro a -mò di sfida-, alternando battibecchi con battute provocanti a mo’ di stornelli:

venite a vedere, venite donne, come il mio, non c’è l’ha nessuno

e sorridendo, dietro enormi baffi, con fare sornione, cercavano di attirare l’attenzione delle giovani signorine, che passavano a passo svelto:

belle ragazze dovete provare, come son resistenti queste mie cose, provate, provate, son buone per la dote!”.

E così dicendo, tra un sorrisetto ed una risata, si avvicinava alle signore con fare intraprendente.

Mia nonna a braccetto alle due sorelle, osservava distratta il fare dell’uomo, più interessata ai prodotti che ai complimenti; camminavano le donne affiancate tutte e tre, si fermava una davanti ad una bancarella e si fermavano anche le altre, guardavano e commentavano, valutavano e soppesavano mentre il mercante di turno, ormai sfinito dai tanti tentativi di offrire la merce ai passanti distratti, cercava di sopraffare le loro voci per spiegare la validità del prodotto.

Tra urla e schiamazzi, tra venditori di professione e trafficanti improvvisati, giravano le tre donne alla ricerca dell’oggetto introvabile.

Perché si va alla fiera, oggi come allora, per cercare quel prodotto, quella meravigliosa ed unica cosa che cambierà la vita!

Quell’oggetto che renderà migliore ogni la cosa, che semplificherà i lavori più duri, che modificherà nella sostanza ogni azione giornaliera.

E cosi, mia nonna e le due sorelle, giravano tra le bancarelle, tra i cestini e tra i cocci della famosa fiera cosentina.

Camminavano sugli stessi ciottoli dove Campanella, Telesio ed il famoso astronomo Amici avevano passeggiato, discorrendo di filosofia, di scienza e religione con la nobiltà ed il colto clero. Ciottoli che sapevano di storie antiche, pietre mute che parlavano a chi sapeva cogliere il senso di una vita senza tempo.

Oggi, queste pietre ascoltano il vociare di una modernità prorompente, danno spazio a nuovi manufatti che un tempo lontano avrebbero sbalordito e impressionato.

La fiera e questa città sono due facce della stessa medaglia, si cercano, si rincorrono, si affrontano, ma non possono separarsi.

Rita Fiordalisi

tratto da “Il cavalluccio di caciocavallo”