Mi chiedo se esiste, anche a Cosenza, una associazione, un gruppo di persone, una comunità capace di indignarsi di fronte a denunce di palesi abusi perpetrati da uomini delle ‘ndrine locali nei confronti di chi si batte giornalmente affinchè questa gente sparisca dalla città.
Mi sa di no. Eppure a sentire qualcuno sembra che di queste associazioni che dicono di lottare contro la mafia ne esistano anche a Cosenza. Ma a vedere il loro operato, tutto quello che a Cosenza è definito antimafia sociale si risolve sempre allo stesso modo: un bel convegno ogni tanto e chi si è visto si è visto.
Oppure, un bel campeggio in Sila a suonare la chitarra la sera davanti al fuoco. E ancora, qui siamo alla massima espressione di militanza contro la ‘ndrangheta, con una bella presentazione di qualche libro. Un mondo virtuale quello dell’antimafia sociale cosentina che non ha niente da invidiare all’antimafia “danzante e salottiera” di cui tanto si è parlato.
Tante parole e nessun fatto. Nessuno è disposto, oltre alla partecipazione a qualche lectio, a metterci la faccia. Tutta la loro attività si svolge all’interno di un gruppetto di persone che si sublimano a vicenda. Dove tutto resta solo apparenza. Un modo come un altro per darsi un tono ma senza correre nessun rischio.
Eppure, alla luce di quanto sta succedendo a Cosenza ci si aspettava, da questi, un minimo di coinvolgimento, non dico di scendere in campo con il giubbotto antiproiettili, ma almeno fare da scudo sociale a chi si batte con tenacia e coraggio contro questi 4 guappi di cartone che da decenni tengono in scacco la città. Invece niente si muove.
Tu puoi pure scrivere di aver subito un agguato, perché qualche malavitoso dice che abbiamo offeso l’onore di un boss, che per loro nulla è successo. Sarà forse perché non siamo nelle loro grazie, sarà perché non rientriamo nella lista dei giornalisti che don Ciotti ha detto di difendere, sarà perché sono pavidi, ma questo è un dato.
Non una parola dopo la nostra denuncia di ieri. Evidentemente non meritiamo la loro solidarietà. E so perché: ci vedono come concorrenti nella lotta antimafia, e quindi darci la solidarietà equivale a riconoscere il nostro lavoro di tutti i giorni contro cricche e malaffare. Il che equivale a sminuire il loro coraggioso lavoro di presentare libri.
O perché gli siamo antipatici, altrimenti non si spiega questo loro vergognoso silenzio. E’ chiaro che dare la solidarietà a noi, significa esporsi in prima persona e rischiare. E questo non rientra nelle loro azioni. Meglio stare lontani da chi senza peli sulla lingua svela e denuncia lo strapotere mafioso in città.
Qualcuno potrebbe “associarci” e incazzarsi, e magari minacciare anche loro, se schierati al nostro fianco. Allora la strategia di queste associazioni, oltre al vergognoso silenzio, diventa quella di sminuire il nostro lavoro, magari bollandolo come troppo “aggressivo” e privo di ogni cifra stilistica, tanto per giustificare la loro pavidità.
Come a dire: se fossero dei Saviani, allora la cosa cambierebbe, ma siccome non sono Saviano, non bisogna dargli troppa importanza e confidenza. Un alibi da vigliacchi. Insomma, alla fine, gli aggressivi per l’antimafia sociale cosentina siamo noi che usiamo parole forti contro corrotti e mafiosi. Non chi ci tende agguati. O chi strozza famiglie, e pretende tangenti dagli onesti lavoratori, quelli da non considerare siamo noi. Mentre mafiosi e affini sono quasi da tutelare, viste le nostre aggressioni giornalistiche nei loro confronti. Complimenti!
Infatti, non una riga hanno scritto su tutto quello che da tempo, agguato a parte, raccontiamo: dagli intrecci politici/mafiosi al sistematico saccheggio delle risorse pubbliche. Cose che nei loro convegni dicono, ma se le scriviamo noi per loro non esistono. Mi rendo conto che è difficile esporsi in una città di omertosi come Cosenza. Ma da qualche parte bisogna pure iniziare. E non bastano le riunioni fittizie di questa o quella associazione per fermare un fenomeno così radicato nella cultura locale.
Non è con una pubblicazione di dottorato che si ottengono risultati in questo senso. Bisogna metterci la faccia, fuori dai convegni, e dalle librerie, luoghi notoriamente non frequentati da mafiosi. Certo, le pubblicazioni editoriali, in termini professionali possono pagare, ma per cortesia non atteggiatevi ad operatori sociali contro la violenza mafiosa. Che con il vostro vergognoso silenzio avallate.
La mafia si combatte tutti i giorni, con azioni quotidiane che insegnino alla gente che ribellarsi si può. Che sottostare al potere mafioso significa negare il futuro ai nostri figli. Dare l’esempio, come dice qualcuno più autorevole di me che non sono nessuno. Azioni che significano solidarizzare concretamente con chi ha trovato il coraggio di dire no alla prevaricazione mafiosa. Fare quadrato fisico attorno a lui o a lei. Stargli vicino. Non lasciarlo solo. Fare quello che in sostanza nei vostri convegni dite. E che nessuno mai applica.
Capisco il silenzio dei giornali locali che con mafiosi e corrotti ci mangiano e che ci vogliono vedere morti, ma da voi ci aspettavamo altro. A Cosenza, del resto, basta guardare il web per capire cosa fa notizia all’interno di questa piccola “casta” dell’antimafia sociale: fa più scalpore, per loro, un profilo falso su FB o una vignetta satirica che un agguato mafioso.
Anche questo è un dato. Perché noi cosentini siamo così: ma chi me lo fa fare? Meglio farsi i cazzi propri. Salvo poi, nei salotti intellettuali o nelle assemblee politiche, riempirsi la bocca di lotta alla mafia. Questa è la realtà che nessuna chiacchiera filosofica potrà smontare. Perché per confutare quello che io scrivo ci vogliono i fatti. E di questi non se ne vede l’ombra.
La mia non è una accusa, né vuole essere una reprimenda, ma piuttosto un incoraggiamento ad uscire allo scoperto. Fuori dalle nicchie intellettuali. Parlare ai quartieri, ai ragazzi, pretendere dalle istituzioni che creino le condizioni affinchè ciò avvenga. Alzare la voce se serve. Pretendere attenzione e concretezza. Questo si deve fare.
I convegni, la presentazione di libri, i dibattiti, sono importanti, per carità, ma se fanno parte di una strategia più ampia e più inclusiva, altrimenti restano fine a se stessi. Questo voglio dire. E lo dico dopo aver letto tanto sull’azione di don Puglisi, che così diceva sul tema da me trattato: “tutte queste iniziative hanno valore ma, se ci si ferma a questo livello, sono soltanto parole. E le parole devono essere confermate dai fatti. Le nostre iniziative e quelle dei volontari devono essere un segno. Devono lasciare un segno.” E di segni lasciati a Cosenza francamente non ce ne sono. O si fa così, nella lotta alla mafia, o siamo destinati a restare una città di quaquaraquà.
GdD