Il “Romanzo criminale cosentino” narrato dalle procure prima e dalle sentenze dopo, dal processo “Garden” fino al processo “Reset”, è un romanzo criminale scritto a metà. Manca, nella narrazione, uno degli aspetti delittuosi che più degli altri hanno permesso al crimine cittadino di prosperare: la collusione tra malaffare e infedeli servitori dello stato. Nelle indagini così come nelle sentenze tutto è riconducibile al solo aspetto delinquenziale di stampo gangheristico, omicidi, pizzo, traffico di droga, usura: gli unici reati che per gli investigatori si consumano in città. Per gli scrittori togati i clan cosentini non hanno mai intrallazzato con appalti truccati, non hanno mai corrotto le istituzioni, e non hanno mai praticato il voto di scambio, solo strozzo, pizzo e pezzata, tutti reati tipici delle associazioni criminali di vecchio stampo che non hanno mai effettuato il salto di qualità. Non solo per incapacità, dovuta alla rozzezza e all’ignoranza, ma soprattutto perché, visto che nessuna sentenza lo scrive e quindi deducibile, nella città di Telesio le istituzioni non si prestano ad accordi con mafiosi e corruttori (‘mmucca liù).
A Cosenza, per le procure e i tribunali, esiste solo la “Terra di mezzo”, e la “Terra di sotto”, manca, unico caso al mondo, la “Terra di sopra”. Che c’è ed è la vera protagonista del nostro romanzo criminale, ma che nessun narratore togato ha ancora presentato ai lettori. Infatti il “Romanzo criminale Bruzio”, a differenza di tutti gli altri romanzi criminali calabresi, Rende compresa, dove la collusione tra stato e antistato è quantomeno citata, si limita al racconto delle gesta criminali di boss e picciotti che nulla hanno avuto a che fare, e niente hanno a che fare con pezzi dello stato deviato e corrotto. Nonostante le tante dichiarazioni rese in merito dai numerosi pentiti. Ma soprattutto i togati non parlano dell’impunità di cui hanno goduto per decenni assassini e trafficanti di droga, evidente dai tanti buchi investigativi e dai mancati approfondimenti processuali che affollano indagini e sentenze, che con la “Terra di sopra”, invece, avevano e hanno a che fare. Altrimenti come spiegare quello che tutti sanno, ovvero la conclamata e socialmente riconosciuta verità storica e fattuale della commistione tra crimine e Giustizia in città, e che nessuna indagine osa mettere nero su bianco?
Più che “Romanzo criminale, quello cittadino dovrebbe intitolarsi “Romanzo Tribunale”, l’origine di tutti i mali della città. Non si può parlare di crimine in città senza mai citare chi ha garantito immunità e impunità a malandrini di peso in combutta con politici e colletti bianchi, creando il paravento dell’isola felice di cui le istituzioni corrotte cittadine si fanno vanto. Negare la corruzione in procura significa negare l’esistenza della massomafia in città. Perciò tutto si riduce, nella narrazione giudiziaria, ad atti delinquenziali posti in essere da una malavita liquida che al massimo strozza qualche consigliere comunale o assessore. Niente di più. Niente accordi sottobanco tra avvocati e magistrati per occultare indagini, nascondere verbali, insabbiare denunce e esposti. In procura tutto si svolge nella più assoluta trasparenza e legalità. E guai a chi dice, pubblicamente, il contrario: il loro non produrre nulla in materia di corruzione giudiziaria a Cosenza, non è certo dovuto a negligenza o peggio a corruzione come pensano in tanti, ma al semplice fatto che non esistono magistrati corrotti. Niente è mai stato riscontrato in tal senso. E le denunce, gli esposti, le testimonianze, depositate in procura e messe a verbale nei processi, sono solo leggende metropolitane.
Eppure, come sanno tutti i cosentini, basta ripercorrere la storia della procura cittadina, da Nicastro, passando per Serafini, Granieri, e il Gattopardo, costellata da tanti casi irrisolti, casi mai aperti, e “casi inventati”, per capire che la corruzione in procura è di casa. Ma la Giustizia non può procedere, ne va dell’immagine della magistratura tutta. Uno scandalo di queste dimensioni, mezza procura che da decenni incassa bustarelle, non conviene a nessuno, né allo stato, né alla magistratura onesta che ne uscirebbe con le ossa rotte (Palamara docet). Meglio mettere tutto a tacere e mantenere una parvenza di legalità, facendo finta che tutto fili liscio, magari limitando l’impunità ai soli pezzotti di un certo livello, e senza dare troppo nell’occhio.
Tra poco arriverà un nuovo procuratore capo e altri pm saranno trasferiti. E tutto sarà dimenticato. Così com’è successo già in passato. Non conviene fare strusciu, i panni sporchi, i magistrati, sono abituati, nella maggior parte dei casi, a lavarli in famiglia. E Cosenza è uno di quei casi dove i coinvolti possono vantare archivi segreti, e conoscenze importanti, tutti “meriti” che garantiscono a chi può esibirli lo status di intoccabile. Sta qui il problema principale della città: non esistono riferimenti affidabili per il cittadino che vuole denunciare atti di corruzione, in procura. Chi lo fa finisce col passare per matto o per diffamatore. E gli esempi di vite rovinate dai pm, per scoraggiare gli onesti che vorrebbero denunciare soprusi e abusi di alcuni magisrati, non mancano. Questa è la concreta e reale situazione Giustizia a Cosenza che più che un romanzo, sembra una commedia tragicomica ara cusentina. L’idea giusta per una fiction tutta sguabbu e bustarelle. Sarebbe la prima dove, per ottenere denaro e potere, non si spara neanche un colpo. E scusate se è poco!