Così i salari bassi tradiscono la Carta

(CHIARA SARACENO – lastampa.it) – C’è il lavoro povero e ci sono i lavoratori poveri. I due fenomeni sono solo in parte sovrapposti. Lavoro povero è quello sottopagato, o con orario forzosamente ridotto (part time involontario), o con contratti precari, vuoi a tempo brevissimo vuoi rinnovati infinite volte ma mai trasformati in un tempo indeterminato. Spesso è caratterizzato da più di una di queste condizioni. Riguarda in molti casi il lavoro poco qualificato, spesso combinandosi anche con condizioni di scarsa sicurezza; ma può riguardare anche il lavoro qualificato, come ad esempio l’assistenza informatica, l’assistenza sociale, il servizio bibliotecario, l’insegnamento, il giornalismo.

Se fornisce l’unico reddito disponibile al lavoratore ed alla sua famiglia, è causa di povertà sia individuale sia familiare. Anche quando questo reddito parziale viene integrato dalla condivisione di altri redditi presenti in famiglia, tuttavia, avere un lavoro povero, specie quando è un’esperienza duratura e apparentemente senza sbocchi, riduce fortemente i gradi di libertà – uscire dalla famiglia di origine per un giovane, formare una famiglia, uscire da un matrimonio o una convivenza in cui si sta male, progettare il futuro. È anche una forma di disconoscimento della dignità del lavoro e del lavoratore/lavoratrice.

Ma ci possono essere lavoratori poveri, e famiglie di lavoratori poveri, anche quando il lavoro è a tempo indeterminato e a orario pieno e il salario (o reddito da lavoro) entro livelli di decenza. Può succedere quando il lavoratore o lavoratrice è l’unico percettore di un reddito modesto in una famiglia composta da più persone che, per età (minore), carico di lavoro familiare, carenza di domanda adeguata, non sono in grado di lavorare per il mercato, o che dovrebbero farlo a condizioni troppo onerose o squalificanti, ovvero di lavoro povero, spesso senza poter contare su servizi (e spesso neppure trasporti) adeguati. Ricordo a questo proposito che, secondo gli ultimi dati relativi al 2023, in Italia si trova in povertà assoluta il 12 per cento delle famiglie con 4 componenti (ed anche di quelle con almeno un figlio minorenne) e il 20,3 per cento di quelle con cinque componenti o più, a fronte del già alto 7,7 per cento di chi vive da solo. Inoltre, se è la disoccupazione della persona di riferimento di gran lunga la causa maggiore di povertà, coinvolgendo il 20,6 per cento di famiglie in questa situazione, anche tra le famiglie con persona di riferimento occupata l’8,2 per cento si trova in povertà assoluta, una percentuale che sale al 9,1 per cento se si tratta di lavoratore dipendente, mentre scende al 5 per cento se si tratta di lavoratore autonomo.

La situazione non solo è peggiorata rispetto al 2022, è anche la peggiore nell’arco di tempo che va dal 2014 al 2023. Certamente conta l’aumento del part time volontario e dei contratti a tempo. Ma conta anche il deterioramento del valore reale dei salari in questi anni, acuito dalla combinazione di mancato, o tardivo, rinnovo dei contratti e dalla morsa dell’inflazione che, come è noto, ha colpito in maggior misura i redditi più bassi. Un salario sicuro ma modesto e non adeguato all’inflazione non garantisce più dal rischio di cadere in povertà assoluta, ovvero di soddisfare i bisogni essenziali della propria famiglia se questa è numerosa e non ci sono altri redditi. Figuriamoci un reddito da lavoro povero. La combinazione di lavoro povero e di famiglie di lavoratori povere, che costituisce una delle caratteristiche della povertà italiana, oltre a smentire l’idea che la povertà sia frutto della mancanza di voglia di lavorare, mette anche in dubbio il senso di «quel fondata sul lavoro» che costituisce l’incipit della nostra Costituzione.