Fiordalisi sull’omicidio Losardo: “Chi sa, parli”. Bravo, inizi lei!

«I tempi sono maturi per riaprire le indagini sull’omicidio di Giannino Losardo. Procedo contro ignoti. Sto leggendo le vecchie sentenze. Invito chiunque sappia qualcosa a farsi avanti. È tempo di giungere alla verità». Così ha dichiarato pubblicamente Domenico Fiordalisi, procuratore capo della Repubblica di Paola, in quella che assomiglia più a una performance mediatica (studiata a tavolino) che a un atto giudiziario concreto.

Perché “tecnicamente” non c’è alcuna riapertura del caso Losardo, né sotto il profilo processuale né sotto quello giuridico. Quella che Fiordalisi chiama “riapertura” è in realtà una semplice indagine conoscitiva contro ignoti, attivata sulla base di presunti “fatti inediti” non specificati. Nessun nome iscritto nel registro degli indagati, nessuna reale possibilità di colpire i responsabili. Annuncia nuovi elementi che dovrebbero far luce sul mistero. Ma l’omicidio Losardo, come sa bene Fiordalisi, non è mai stato un mistero: “Tutti a Cetraro sanno chi mi ha sparato”, e tutti sanno chi ha coperto mandanti e assassini, assolti clamorosamente dalla Corte d’Assise di Bari nel 1986. Franco Muto e i suoi sodali, per l’omicidio Losardo, non possono più essere processati.

E allora, a cosa mira davvero l’apertura di questo nuovo fascicolo? Che volto e che nomi dovrebbero avere gli “ignoti” di cui va a caccia Fiordalisi, visto che i nomi dei mandanti e degli assassini non si possono più fare? A chi è rivolta questa indagine: a uno o più componenti del gruppo di esecutori mai venuti fuori? Ai corrotti della Procura e delle forze dell’ordine che coprirono mandanti e assassini? Ai politici collusi con la cosca Muto? E soprattutto: di quale tenore sono questi “nuovi elementi” di cui parla Fiordalisi? Una cosa è certa: l’omicidio Losardo è un delitto di stampo mafioso. E in quanto tale, è di competenza della Dda di Catanzaro. Ogni “nuovo elemento” emerso va trasmesso immediatamente a Catanzaro, come impone la legge. E così farà. Magari consegnandoli a qualcuno che, da tempo, attende la sua occasione per recuperare un po’ della credibilità perduta. Ma, intanto, la ribalta mediatica è tutta per lui: Fiordalisi il magistrato che ha “riaperto” il caso Losardo.

Quella promossa da Fiordalisi è palesemente un’operazione d’immagine, non di giustizia. Una mossa costruita per rifarsi una verginità istituzionale, ripulirsi agli occhi dell’opinione pubblica e ritagliarsi un posto nella narrazione eroica di chi insegue la verità. Ma la verità, per chi conosce la storia, è che questa è solo l’ennesima messinscena: sentir parlare di “nuove indagini” sull’omicidio Losardo da parte di Fiordalisi è come sentire un complice chiedere verità. Perché in quel “tutti sanno chi mi ha sparato”, pronunciato da Losardo al maresciallo dei carabinieri prima di morire, c’è anche Fiordalisi. Non fosse altro perché Fiordalisi conosce a memoria l’ambiente in cui Losardo è stato ammazzato, non solo dalla ‘ndrangheta, ma anche dall’inerzia e dalla corruzione delle istituzioni. E quell’ambiente, Fiordalisi l’ha frequentato, respirato, servito per anni. Oggi, tornato a Paola da procuratore capo, annuncia questa indagine “contro ignoti” con toni solenni. Ma quali ignoti, verrebbe da chiedere, per uno che ha vissuto dentro quella Procura per anni e che ne conosce ogni ombra?

Fiordalisi arriva a Paola nel 1987. L’omicidio Losardo è del 1980, tuttavia il processo di Bari finisce appena qualche mese prima dell’arrivo della “foca ammaestrata” a Paola. E chi ha lavorato in una Procura sa bene che i muri parlano. I faldoni si sfogliano. E soprattutto: i colleghi raccontano. A Paola, Fiordalisi lavora fianco a fianco con Luigi Belvedere, il magistrato che aveva in mano le prime indagini sull’omicidio. Quel Belvedere descritto nella ispezione Granero del 1991 come gestore opaco e personalistico dell’ufficio, sospeso nel 1984, poi reintegrato, e di nuovo sanzionato. Un uomo che trattava la Procura come un affare di famiglia. Fiordalisi ha lavorato con lui, ne ha condiviso la linea. È stato trasferito anche lui per incompatibilità ambientale. Non erano solo colleghi: erano due ingranaggi dello stesso meccanismo. E oggi Fiordalisi pretende di indagare? Su cosa? Su chi? Fiordalisi conosce bene tutto ciò che c’è da conoscere sull’omicidio Losardo. Ha visto, ha sentito, ha saputo. E ha scelto il silenzio per decenni. Con Belvedere erano “culo e camicia”. Fiordalisi si trovava proprio a Paola mentre si svolgeva a Bari il processo a carico di Muto e sodali. Lui, in quel momento, era lì, insieme al suo amico Belvedere. E credere che i due non abbiano mai parlato di quello che stava succedendo a Bari, o della sospensione di Belvedere per le gravi mancanze nel condurre le indagini, è difficile. I due erano soci in affari loschi. E tra compari certe cose si sanno. E oggi, con il cappello da procuratore capo, vuol farci credere di essere alla ricerca di risposte che ha avuto sotto gli occhi per tutta la vita?

Del resto, credere alla malafede di Fiordalisi non è un esercizio peregrino o fine a sé stesso. Di precedenti, Fiordalisi ne ha. Uno su tutti: l’operazione No Global del 2002, una delle più servili e grottesche montature giudiziarie contro il dissenso. Un’inchiesta basata su dossier farlocchi dei Ros, utile solo a schedare manifestanti e servire un po’ di repressione ai governi di allora. Risultato: tutti assolti. Una montatura che solo uno come Fiordalisi, servile verso i potenti di turno, poteva avallare. Fiordalisi sa sempre da che parte stare. E oggi, nel tentativo di cancellare dalla memoria collettiva le tante macchie sulla sua toga, si rimette in scena a Paola, chiedendo “verità”. Ma non può aprire un nuovo processo. Non può toccare i mandanti. Non può far nulla, se non tentare di riscrivere il proprio ruolo in quella storia. E quello di qualcun altro. E allora, davvero, egregio procuratore: “chi sa, parli”. Parole giuste. Parole che fanno effetto. Ma che, dette da Fiordalisi, suonano beffarde. Ipocrite. Perché non dovrebbe certo rivolgerle ai cittadini, ai familiari di Losardo, ai giornalisti. Dovrebbe rivolgerle prima di tutto a sé stesso, davanti a uno specchio. O, se ha coraggio, davanti a un’aula. Perché l’omicidio di Giannino Losardo è stato compiuto dalla mafia ma su preciso mandato dello stato. Che poi ha insabbiato da par suo. E questo, Fiordalisi lo sa bene.

Perciò la “riapertura”, che non esiste, è solo un tentativo squallido — e offensivo per la memoria di Losardo — di ricostruirsi un’immagine pubblica. Fiordalisi prova a specchiarsi nella figura limpida e coraggiosa di Giannino, usandola come paravento per riabilitare sé stesso e magari anche il suo ritrovato compagno alla Dda di Catanzaro, Vincenzo Luberto, con cui da tempo fa coppia fissa. E il cerchio si chiude. Tutto diventa chiaro: per Giannino, e la sua famiglia, in questa terra disperata, non ci sarà mai giustizia.