Un «ritratto» sui generis e un testo straordinario in cui sono raccontate le radici di Piperno e il suo stretto rapporto con la sua terra natìa, la Calabria. Il testo sulla rivista era accompagnato dalle seguenti righe di introduzione: «Franco Piperno (uno dei fondatori di Potere Operaio), costretto all’esilio per i suoi presunti rapporti con le Brigate Rosse, ci ha mandato questo racconto dal Canada».
* * *
I LUPI
di Franco Piperno
racconto autobiografico
La prima volta che la vidi se ne stava rincantucciata in un angolo, il più buio, del porticato all’ingresso della casa in Calabria.
Un che di spossato e di alchemico stagnava nell’aria quasi si stesse per consumare un sortilegio. Una sera come ne capitano di frequente d’estate, laggiù, in Calabria, sulle colline a ridosso della Sila.
Se non hai confidenza con quelle sere puoi pensare che al tocco accade qualcosa, un evento irreparabile, definitivo, magari la fine del mondo.
Come accade ai calabresi quando discutono. Le conversazioni subito diventano concitate, vanno sopra tono. Un gesticolare furioso le accompagna fino a sopraffare la parola. Le mani disegnano nell’aria movimenti che mimano la rissa, e perfino l’omicidio. Ma non accade nulla. Resta solo una conversazione; neanche un alterco. Una conversazione in cui l’enfasi controllata dai gesti simula la passione e riscatta la fatuità dell’argomentare e del suo oggetto.
Era una sera di luglio, la prima volta che la vidi. Ero uscito di prigione da pochi giorni. C’era stata una festa quel pomeriggio a Cosenza, una festa grande per la scarcerazione. Della vera allegria, e si era fatto tardi. Gli amici, riaccompagnandomi fino alla stradina sterrata che conduce a casa, mi avevano avvertito di una sorpresa.
La prima volta che la vidi, quella sera di luglio, la lupa aveva poco più di tre mesi. Se ne stava immobile seduta sul treno posteriore, la linea gibbosa, propria dei grandi selvatici quando attendono guardinghi, accentuata dal peso di una catena senza misura che la tratteneva al tronco del gelsomino. Sotto quel vincolo, aveva scelto l’angolo meno illuminato del porticato, quello che la lampada elettrica, fissata pendula ad un asse del soffitto, era costretta, per un gioco di geometrie, a risparmiare. Se ne stava immobile nella penombra, il fianco sinistro contro il muro di pietra brunita in un tentativo di occultamento.
Solo le zampe anteriori non era riuscita a ritrarre; sicché investite dalla luce, prendevano risalto e sembravano gonfie, accentuando ancor più la sproporzione con il corpo minuto. Feci qualche passo con cautela. Spostai con la mano la lampada, confidando, caparbio, nella mimesi. Solo di tanto in tanto un lento batter di ciglio tradiva il fastidio che l’abbagliamento procurava.
Aveva un’aria tesa, in allarme. Lo sguardo vivo e penetrante. Il cranio ampio, leggermente a volta all’attaccatura del collo, si restringeva gradualmente ma nettamente verso gli occhi per far posto ad un muso aguzzo, appuntito. Rimase inerte uno stop appena abbozzato. Gli occhi erano due mandorle scure incastonate obliquamente rispetto all’asse del muso; e puntavano all’insù, verso le tempie. Il tartufo era grigio scuro. Le labbra sottili e strette gli conferivano un’espressione di cattiveria sprezzante. Sembrava avere come testa un triangolo. Ma le orecchie, erano le orecchie ad attirare di più lo sguardo, ed a lasciare stupefatto. Appena più chiare rispetto al grigio giallognolo del mantello. Spropositamente lunghe, tese, dure come sterpi. Quelle orecchie finivano con l’imporsi, conferendo all’animale una foggia alquanto inquietante. Un asino mostruosamente nano; o un topo di campagna a cui fossero state trapiantate in laboratorio delle orecchie di latta. Quelle orecchie mi frugarono rapidamente nella memoria, lasciando affiorare il giusto ricordo.
No, non poteva essere un asino, né un topo; ma non era neppure un cucciolo di volpe o di cane. Era un lupo. Gli aneddoti smozzicati dei pastori ascoltati tanti anni prima, da bambino, durante le mie estatí lontane, in Sila; i racconti di mio nonno, cacciatore come si usava un tempo; le letture sparse di zoologia, tutto quanto ricordavo sui lupi insisteva su quel particolare: le orecchie insolitamente grandi e forti dei cuccioli.

Pietro è persona di mezza età, media statura, media corporatura. Come protetto dall’anonimia della medietà. Solo lo sguardo scarta. Uno sguardo di chi non ha sentimenti – o forse ne ha di definitiviti. Viene da Luzzi, un paese dell’entroterra nella Presila cosentina.
Imparava camminando, esercizio semplice quanti altro mai. Giorno dopo giorno conosceva così sentieri e dirupi, boschi grassi di castagni, distese brulle e lunari, torrenti insignificanti assediati da olmi e querce. E la linea, la linea che si sfalda, digrada in pantani melmosi, per poi riprendersi, in un guizzo, e curvarsi nevroticamente al cielo; la linea che ora è la crudezza spietata del Pollino, ora è la Sila con la fuga quieta di colline simili a verdi nuvole.
Imparava Pietro ad «ascoltare tra i pruni e gli sterpi, gli schiocchi di merli e frusci di serpi». Imparava ad apprezzare, nel sottobosco, il cuscinetto di cristallo della volpe osservandone la traccia, appena impressa e già svanita. E trasaliva ogni volta all’orma appartata del lupo. Apprendeva a leggere le differenze minimali tra il ramo di acacia spezzato, per disattenzione, nella corsa, dal cinghiale e quello schiantato dallo stesso animale alla ricerca del cibo. Scrutava nel cielo, per ore, il volo degli uccelli. E ricostruiva le effettive sembianze di oggetti neri, piccoli come pallottole; lassù dove la lontananza rende tutto uguale.
Imparava Pietro con l’esercizio semplicissimo del camminare. Perché «in un esercizio semplicissimo in un certo modo stupido c’è maggior beneficio, più veritiere nozioni che nell’apprendimento di una quantità di concetti e significati». Imparava Pietro camminando. Imparava, e così trascorreva la giovinezza.
Pietro non aveva sofferto della cosa più di tanto. L’errare tra la vita autonoma che non abbisogna dell’uomo, là dove la direzione del vento, il peso dell’aria, la declinazione della luce scandiscono un tempo del tutto estraneo agli orologi; l’errare insomma laddove errare non è attività senza senso ma è vivere né esclusi né partecipi; questo errare la cauterizzava da ogni dolore. Di tanto in tanto Pietro raccontava di animali e piante a qualche compaesano, a qualche vecchio malvissuto di Luzzi sorseggiando il vino nervoso della collina.
S’era scelta per localizzarla, secondo criteri a tutti noti ma ancora oggi da nessuno confessati, ad Arcavacata, una contrada collinosa ricoperta di ulivi e fichi, a pochi chilometri da Luzzi. Era l’università del centro sinistra, concepita negli anni del miracolo, senza risparmi. Quando ancora lo sguardo lento e cupo di Nenni fingeva l’apertura di una svolta secolare, di un nuovo corso per la storia d’Italia dentro cui gli uliveti secolari della Calabria si sarebbero ristretti per far posto alle nuove tecnologie. Piovevano sui paesini dell’entroterra cosentino i posti di lavoro come grandine benedetta. Dal nord, interi spezzoni della generazione del sessantotto, esausti per aver dato fondo all’universo, mettevano insieme improbabili titoli e calavano improvvisandosi professori di una università senza passato.
Un milanese frate zoologo si era ritrovato a capo del Dipartimento di Ecologia. Aveva, questo frate, confidenze con le donne e i microscopi elettronici piuttosto che con le madonne sudate dei conventi. Gli piaceva il vino del Sud che brucia la gola e ne ricercava la varietà con la pazienza del collezionista.
Gli era stato presentato come una curiosità locale. Il frate aveva intuito, perché la spregiudicatezza è gran consigliera, quanto sapere si era accumulato dietro la quieta bizzarria di quell’uomo. E quale profitto se ne poteva trarre dovendo inventarsi, un po’ per celia un po’ per far carriera, un Dipartimento di Ecologia in Calabria.
I docenti lo intasavano di libri e di buoni consigli. Pietro leggeva malvolentieri, per cortesia. Salvo il trattato di Federico sulla falconeria. Quello si lo aveva incuriosito; anzi lo aveva afferrato; gli era entrato dentro come un vino vecchio. Fino al punto che quando Pietro diceva del pellegrino, il suo eloquio si trasformava quasi che la voce del biondo re svevo risuonasse dentro le sue parole.

Mi aveva condotto poche volte a vagabondare con lui. Tre, forse, quattro volte. Sugli strapiombi del Pollino a sbirciare, completamente occultati, il nido dell’aquila laddove la roccia uranifera si fende e, improvvisa, si apre una crepa. Tra le radure della Sila ad osservare immobili come alberi, il gioco elegante, di primavera, dei giovani daini. E in quelle occasioni mi aveva ripetutamente promesso un cucciolo di lupo. Perché io, patito di Lorenz, potessi allevarlo per poi accoppiarlo con un mio cane, un pastore belga, a mo’ di rinsanguamento.
E invece non era andata così. A maggio dell’80 aveva scoperto in Sila, proprio sul ginocchio di un dirupo nel bosco della Fossiata – il bosco che già fu rifugio di Annibale – una tana, una tana di lupo. Dentro sei cuccioli, avidi, malfermi, bofonchianti. Pietro a tentoni, roteando gli occhi come un falco per scorgere in tempo il ritorno felpato della lupa, aveva prelevato da quella tana fonda, quasi fosse una botte, due cuccioli, un maschio e una femmina. Il maschio era per Laura. Una docente che portava in giro il suo corpo, bello e ferino, come un recipiente di vergogna ed ignominia, una disgrazia insomma – portamento questo che muoveva in Pietro la carne, lasciandola dopo ogni incontro, in una tranquilla spossatezza.
La femmina l’aveva serbata per me. E l’aveva custodita per più di un mese, in attesa della scarcerazione. La prima volta che la vidi, quella sera di luglio, rimasi a guardarla per qualche minuto. Poi accennai ad avvicinarmi.
Presi in cucina un pezzo di carne cruda e tornai di nuovo verso l’ingresso, nel porticato. Mi avvicinai alla lupa lentamente, senza pause nel moto, regolare e risoluto. Avevo cura di farmi scorgere bene dell’animale compatibilmente con l’illuminazione incerta. Sapevo che il selvatico ha poco timore di ciò che riesce a scorgere già da lontano, in maniera chiara e distinta. Mi avvicinai fino che la testa dell’animale non fu a portata di mano. Poi mi arrestai; ed evitando di piegarmi o cambiare in qualche modo forma al mio corpo, accostai con decisione la mano che tratteneva la carne al tartufo dell’animale.
Mi aveva baciato. Era la prima volta che ricevevo un bacio da una lupa. Nei giorni che seguirono, mi occupai a tempo pieno della lupa. L’avevo sistemata in un recinto lontana dai cani. Un sottoscala buio simulava bene la tana.L’osservavo per ore. I movimenti, i giochi, i pasti, il sonno.
Presi a filmarla in super 8. Ne filmavo, di preferenza, il sonno. Dall’alto, da una finestra della casa. Dormiva un tempo leggendario. Di fianco. Mutando ad intervalli regolari, di circa cinque minuti, il contorno del corpo. Ora stesa con le quattro gambe sparse; ora rannicchiata in forma fetale. Dormiva e sussultava di tanto in tanto, posseduta dai sogni abissali dei cuccioli.
Filmai perfino il primo incontro, così critico, tra la lupa ed un mio cane, una doberman, femmina anche essa mercuriale e cattiva. La doberman stava ferma, ritta e ostile. Guardava dall’alto, di sghimbescio, la piccola lupa, che, dopo un attimo di estraneamento, le era andata sotto, dando inizio ad una danza di gran mestiere. Semi strisciante, con il treno posteriore terra, come seduta.
Si trattava, in realtà, di una danza rituale ancorché spontanea. La piccola lupa, messa d’improvviso davanti alla figura massiccia e scura della doberman, aveva reagito d’istinto, adottando, non senza nostalgia, la cagna come madre. E sollecitava leccando le labbra della doberman e danzandole sotto il muso, un preciso gesto materno. Il gesto attraverso cui viene sanzionato tra i lupi il rapporto specifico di parentela: il vomito della madre, che mette così a disposizione dei cuccioli il cibo ingurgitato nelle caccie fruttuose e lavorato dai succhi gastrici fino a renderlo una specie di poltiglia facilmente digeribile, quasi un precotto.
Ero totalmente preso dall’idea di fissare sulla pellicola quella scena ineffabile. Certo, sapevo che la cagna avrebbe aggredito. Ma aspettavo il ringhio sordo che precede l’attacco e l’annuncia, per saggezza atavica. Invece la doberman aggredì senza avvertire; come avviene quando l’aggressore presuppone irrilevanti le reazioni difensive dell’ aggredito.
Intanto la cagna, per parte sua, annusava il ventre della lupacchiotta. Ogni attitudine aggressiva sembrava dissolta. Dimenava convulsamente quel moncherino posteriore duro come un ramo spezzato, residuo, sopravvissuto ai ferri del veterinario, di quella che era stata la sua coda lunga e superba – mutilata in onore del buon gusto che tende a migliorare spietatamente tutto.
Vidi rosso all’istante. Raramente ho provato una rabbia simile. La lupacchiotta mi era già cara con quella sua aria un po’ sorniona e un po’ sprezzante. In più non sopportavo l’avidità imbecille della doberman che per qualche chilo di carne in più rischiava di mettere fine anzitempo ad una esperienza inusitata e forse, per me, irripetibile. Agguantai la cagna e torcendole il collo la costrinsi per terra. Le assestai d’impeto una serie di calci sul muso, dimentico di ogni buona regola di allevamento.
Dopo qualche minuto mollò, si divincolò, si rizzò in piedi scrollandosi più volte e corse goffa come un orsacchiotto verso la doberman. Appena sotto riprese la sua danza rituale. La cagna mi guardò con aria interrogativa, quindi osservò dall’alto di sghimbescio la lupacchiotta; emise un ringhio breve e sordo e si girò di scatto per allontanarsi al trotto con fare sdegnato.
In realtà era avvenuto un riconoscimento nei termini imposti dalla lupacchiotta. In seguito infatti la cucciola trattò la cagna alla stregua di una madre adottiva ancorché recalcitrante e bisbetica. Mentre la doberman non tentò più di fare della lupacchiotta un pasto di sfuggita, fuori orario.
Non mi stancavo di guardarla vivere. Ero contento che esistesse e che fosse a portata dei miei occhi, dei miei sensi, delle mie cure. In quelle prime settimane di luglio mi fu compagna in ogni momento; una compagna ingombrante. Per la verità era il cibo a rendere la nostra confidenza via via più intensa ed esclusiva.
Quattro erano i pasti, ad intervalli di tre ore, che ritmavano la giornata. Per quattro volte la cucciola palpitava, fremeva, soffriva, piangeva, rideva. E di questo rapporto corporeo portato al diapason, che l’animale intratteneva con il cibo, ne beneficiavo in buona misura anche io. In fondo ero ben io che preparavo e servivo quei pasti; oltre a pagarli, naturalmente.
L’istinto del nutrimento nel cucciolo di lupo ha dimensioni debordanti, anzi totali. Del resto la cosa riguarda il selvatico in generale, volatili compresi.
Perché il nutrimento è la via maestra attraverso cui l’uomo può condizionare il selvatico; e tentarne il dominio. Davo alla lupacchiotta, di mattina, l’equivalente di un litro di latte in yogurt, arricchito con tuorlo d’uovo e olio di fegato di merluzzo. Poi, diviso in tre pasti, un chilo e mezzo di carne cruda; a volte fegato a volte rimasugli triturati. Due volte la settimana inserivo nella carne dei farinacei e delle carote, che spargevo di polvere d’ossa, per insaporirle. Le razioni erano abbondanti; cioè tali da rimpinzare la cucciola fino a gonfiarle il ventre come un piccolo otre e a renderne difficoltosi e buffi i movimenti. Spesso, consumato il pasto la lupacchiotta se ne restava ferma, seduta nella posa gibbosa a contemplare, caduta in uno strano sopore, la scodella vuota. Il suo ventre bottiforme faceva curiosi rumori; e l’animale se ne stava in ascolto con la testa china. Poi si voltava lentamente a guardare me, quasi per tranquillizzarsi. Dovevo sorvegliarla dopo il pasto perché spesso, d’un tratto, finiva con il vomitare l’eccesso di cibo là dove si trovava.
Quando entrava in casa, di soppiatto o guidata preferiva la cucina, la grande cucina contadina. Aveva messo bene a fuoco le suppellettili che adornavano quel locale; e stabilito tra di esse una precisa gerarchia. In ordine al potenziale alimentare che custodivano all’interno. Sicché il frigorifero era l’oggetto di attenzioni ossessive e passioni smodate. Da quel ventre metallico usciva la carne, il latte, i formaggi, lo yogurt. Appena mi avvicinavo al frigorifero, la lupacchiotta, se non era già li alla porta, arrivava trotterellando. E se aprivo il portellone l’animale, puntando sul treno posteriore, con uno scatto di reni, volava verso l’alto all’altezza della mia mano, tendendo il corpo in una foggia aerodinamica come un proiettile di mortaio. A nulla valevano le mie urla; e neppure i colpi sul muso che impulsivamente le assestavo facendola rotolare per terra. Non appena in piedi ci riprovava di nuovo, caparbia.
L’ingordigia della mia lupacchiotta sarebbe piaciuta a Dante. Era un po’ questa passione smodata un segreto del suo apparato sensorio. I cuccioli dei cani non hanno certo un rapporto misurato col cibo. Ma niente di paragonabile al cucciolo del lupo. Giacché il cane conta per il suo esistere sull’uomo. Ed è questo, a ben vedere, non l’effetto dell’addomesticamento, ma l’addomesticamento senz’altro. Il cucciolo del lupo anche quando l’uomo è li e lo nutre, continua a fare affidamento solo su se stesso. Mangia tutto quello che può finché ce n’è. Al contrario del cane, che ha lo sciacallo tra i capostipiti, non concepisce alcuna forma di previdenza o riserva. Si nutre solo di carne fresca; e non ha senso per lui nascondere il cibo in eccesso, come dire far provviste. Così nel cucciolo del lupo in cattività l’ingordigia è indipendenza dall’uomo; o, almeno, malinconia di indipendenza.
Il lupo cucciolo o adulto che sia non si rappresenta, nell’uomo che lo alleva, la madre. Al più, se va bene, lo riterrà il capo del branco, un branco improbabile. E serberà intatta la sua autonomia, il principio di contare solo sulle sue forze. È ben per questo che le rare tenerezze che un lupo può concedervi, risultano così specifiche e struggenti. Come accade tra individui realizzati.
Erano trascorsi venti giorni, al più, dalla sera in cui avevo trovato, incatenata al gelsomino, la lupacchiotta. Venti giorni di emozioni febbrili.
Così i due cuccioli si ricongiunsero nel recinto sul retro della mia casa. Il maschio era di corporatura più robusta e leggermente più alto. Il muso meno appuntito ed un che di meno elegante, più tozzo. Inoltre si mostrava più diffidente e risoluto. Si irritava di frequente; e facilmente trascendeva al ringhio e al morso vero e proprio. Un morso di poco danno, in verità, per via della dentatura ancora da latte. Anche la lupacchiotta si era come incattivita con l’arrivo del fratello. Aveva persino inserito elementi di aggressività nel suo rapporto ambiguo con la doberman. Ed infastidiva apertamente il pastore belga. Le era anche cresciuta l’avida curiosità con cui frugava fra le cose, devastandole. Solo la sua confidenza con me non aveva subito mutamento alcuno; sempre più complice e dolce come un amore illegittimo.
All’imbrunire, due ore dopo l’ultimo pasto, consentivo loro di andare liberi, da soli, senza i cani, per cacciare.
Si precipitavano al galoppo giù per il pendio. Ma non davano inizio subito alla caccia vera e propria. O meglio la caccia si apriva con qualche forma di gioco. In genere incominciavano a molestarsi a vicenda in un crescendo che poteva arrivare a produrre piccole ferite. Quindi si separavano per corrersi incontro all’impazzata frontalmente, decisi all’urto. Un istante prima, però, l’uno o l’altro schivava. Capitava anche che, d’accordo, attaccassero con foga pietre, tronchi di alberi o altri oggetti inanimati che giacevano lungo il pendio. Qualche volta la lupacchiotta si acquattava fra i cespugli; l’altro allora la cercava affannosamente come se davvero temesse di averla perduta. Passava e ripassava al nascondiglio; e ogni volta proseguiva veloce senza nulla scorgere. Finché in uno dei passaggi, senza preavviso, le piombava addosso, l’afferrava alla gola e la scuoteva energicamente.
Il gioco cessava di colpo. Seguiva un’ispezione del terreno lunga, circolare; a partire ogni volta come casualmente, dal punto dove il gioco si era arrestato. Si dividevano e percorrevano, grosso modo, due semicerchi contrapposti. Poi, ricongiungendosi, camminavano un po’ di conserva seguendo un raggio immaginario della circonferenza già percorsa. Allargandosi verso l’esterno; ma non di rado convergendo al centro. Quindi si dividevano di nuovo e procedevano separati, lungo due altri semicerchi. E così via iterativamente. Per parecchi minuti. Quell’andirivieni paziente poteva terminare, pianamente, in uno dei punti di incontro come per esaurimento. Nel qual caso i due lupetti ricominciavano a giocare. E giocando si spostavano, con apparente inconsapevolezza, in un’altra zona più a valle; che, dopo un po’, cominciavano a scandagliare al solito modo.
Per la verità non sempre il convergere metteva capo a qualcosa. Anche i lupi si ingannano, equivocano i segnali; o più semplicemente arrivano al posto giusto ma in ritardo. Non avevo modo, da lontano, di distinguere fra riuscita e smacco di quella caccia per via del silenzio e della penombra. Dovevo avvicinarmi. Allora, se si era trattato di un falso allarme, i lupetti si allontanavano al mio sopraggiungere, per riprendere altrove la caccia. Se invece il colpo era riuscito, mi arrestavano ringhiando. Rimanevo fermo, in questo caso; sforzandomi di intravedere altro che quel frenetico spazzar di code. E l’indomani, col sole, tornavo sul posto a cercare la carogna, quel che restava della chiavica. La tesa, lo sterno e le ossa principali interamente spolpate. Le zampe ed il dorso generalmente intatte.
Compiaciuto, miravo la carogna come fosse un trofeo, un segno della gagliardia di quei miei protetti; così cari e così sanguinari. I lupetti, invece, non avevano alcuna simpatia per i residui di caccia. Anche quando avevano abbandonato la preda con un bel po’ di carne addosso, non riandavano a cercarla. Anzi, nelle sere successive, evitavano con cura di cacciare nelle zone dove si avvertivano zaffate di carogne in putrefazione. E cercavano, altrove, allargando il territorio sempre più a valle. Solo dopo parecchi giorni, quando ormai la decomposizione aveva avuto il suo corso, ritornavano nelle zone dove avevano già praticato con fortuna la caccia.
Frequentare lupi è cosa singolare. Intanto perché non ve ne sono molti. In Calabria, che pure offre un habitat tra i più adatti, poche decine, non più di trenta in tutto. La scarsità è come la morte: inserisce del tragico nelle banalità. Sicché nel nutrire un decimo, o quasi, di una specie in estinzione ci si sente conservatori di un patrimonio prezioso; mansione connessa al curare e al far durare, mestieri tra i più utili e desueti. Ma ancor più singolare è poter osservare la vita che non abbisogna dell’uomo. Poterla osservare nelle minuzie, nei dettagli, là dove cela, intatta, la differenza. Certo, gli animali domestici partecipano della «vita altra».
Ma si tratta di simulazione. Non diversamente dalla geometria animata che muove le macchine, la vita degli animali domestici è fabbricata dall’uomo, dipende dall’uomo, è utile all’uomo. Tutto si svolge all’ombra dell’uomo; e cessa al dissiparsi di questa ombra che lo copre. I cani, i gatti, i cavalli, i buoi, le galline non mancano di niente. L’uomo provvede loro, li imbozzola per così dire nel suo esistere; li rende partecipi di una totalità autosufficiente. È ben per questo che, messi di fronte agli effetti di una moria, poniamo, di cavalli, non trasaliamo come davanti ad un cimitero di elefanti. I cadaveri raggruppati degli animali domestici hanno su di noi un effetto analogo a quello dei cimiteri d’automobili – questi monumenti violenti ed irrelati che offendono perfino l’occhio distratto dell’automobilista. Non siamo davanti alla morte, ma alla estinzione del senso. Deve essere così anche per le città evacuate: senza espressione, flosce come bisacce svuotate.
Non così per la natura autonoma dell’uomo, per la vita selvatica. L’esserci di questa natura sta davvero «nel suo decorso, cioè finché non abbia compiuto il suo corso».Il selvatico manca di tutto. E non si separa né si emancipa da questa mancanza. La sua condizione come individuo e come specie è la dipendenza dall’ambiente che lo circonda; e alla cui costituzione, del resto, contribuisce. Questa dipendenza assoluta è integrazione.
I lupi, come è noto, non abbaiano. In cambio capita loro di ululare, le notti di luna, con maggior strazio che i cani. Ululano e seguono con la testa la luna ad occhi chiusi, in un soffrire attento. Si dice che, così, piangano.
Una notte d’agosto «memorie crudeli e desideri» mi tenevano insonne e solo nel torpore. Una notte d’agosto senza luna. Verso l’alba, ad un tratto, una voce. Un singulto seguito da un singhiozzo. Di nuovo un singulto e un singhiozzo. Poi una pausa; ed ecco una nota lunga, lacerante rompe definitivamente la notte, muore a poco a poco. Quindi riprende ma sostenuta, vibrante senza fine. Si spande, penetra ovunque, riempie tutto. Non un angolo di silenzio è risparmiato. Non c’è più posto che per quel lamento. Si spegne, tace; poi riprende due, tre volte, tante volte più forte. I due lupi bambini ululano il male di vivere.
Intanto la notizia dei cuccioli di lupo si sparse ad Arcavacata. Arrivavano così i curiosi. Non sempre a mani vuote. Ricevevo di tanto in tanto modesti aiuti per il sostentamento dei lupetti. Per la verità capitava anche di dover accettare, senza batter ciglio, oggetti peregrini; un minuscolo materasso e, perfino, una bambola di plastica. Ma più spesso ricevevo carne fresca; e anche piccoli animali vivi. Alla fine di agosto, una mattina ventosa di quel vento in cui senti arrivare l’autunno, introdussi nel recinto dei lupi, catapultandolo dall’alto della rete metallica, un coniglio vivo. Era giovane e bianco, una piccola chiazza bruna sul petto. Lo avevo ricevuto la sera prima, omaggio inaspettato di un vicino.
Il coniglio fece una piroetta in aria e ricadde per terra sulle zampe posteriori ben saldo. Poi si mise a correre all’impazzata. Seguiva il limitare del recinto. Di tanto in tanto balzava, con un colpo di reni, sulla rete e la percorreva, artigliandone le maglie, in verticale. Tentava di scavalcare. Ma dopo mezzo metro, o poco più, si arrestava per via dell’impraticabilità dell’impresa; si lasciava cadere a suolo per guardarsi tutt’attorno, gli occhi dilatati, il cuore in gola, il tremolio caratteristico del tartufo allo spasimo. I due lupacchiotti erano rimasti fermi, là dove si trovavano, all’ingresso della loro tana-sottoscala. La femmina accovacciata su un fianco, il maschio accanto, seduto nella posa gibbosa. Sembravano indifferenti. Solo il lento girare delle teste triangolari tradiva la cura con cui focalizzavano i movimenti del roditore. Questi, a sua volta, aveva certo avvertito il pericolo. Quella corsa affannosa durò due, tre minuti. Poi il coniglio si arrestò nel punto dove aveva inizialmente preso terra. Respirava affannosamente, ventre a terra, le lunghe orecchie frementi come canne, gli occhi sbarrati sul sottoscala, da dove sentiva arrivare la morte.
Appena la lupa ebbe dimezzato, o quasi, la distanza che la separava dal coniglio, piegò bruscamente a sinistra, e continuò ad avvicinarsi, ma di fianco al roditore, lungo la rete. Era ancora lontana oltre cinque metri, quando il coniglio, impaurito, riprese, con uno scatto, il suo girovagare, più concitato di prima. La lupa restò indifferente; non guardò neppure, e proseguì come per raggiungere un punto prestabilito. Era questo punto grossomodo simmetrico rispetto all’ingresso del sottoscala, dove immobile e gibboso era rimasto l’altro lupo. La femmina si fermò lì, a metà circa del recinto, sedendosi nella stesa posa del maschio, con la testa rivolta al coniglio. Quest’ultimo aveva ora a disposizione, per i suoi movimenti, un’area più ristretta, marcata su entrambi i lati dalla presenza muta dei predatori. Insisteva il coniglio a cercare una piccola porta, una piccola porta attraverso cui passare e salvarsi.
Ma i suoi movimenti erano via via più frenetici e scomposti. Ogni volta che spossato si arrestava, la lupa trotterellando si avvicinava costringendolo, pur senza entrare in contatto, a riprendere quella fuga senza fine. Ormai l’area di sicurezza entro cui la preda si agitava s’era paurosamente assottigliata. Per la verità, il roditore tentò una volta di invertire quella tendenza che irresistibilmente lo trascinava verso la fine. E si slanciò d’improvviso lungo la rete, tentando di oltrepassare la lupa, e di riguadagnare spazio alla sua lunga agonia. Ma la femmina, fino ad allora indolente, si piegò ad arco; e in un grande agitar di coda si precipitò, anzi fece le viste di precipitarsi sul coniglio. Tanto bastò perché il roditore desistesse, invertendo direzione; e ricominciasse a girare vorticosamente dentro quell’ultimo lembo di mondo a disposizione. Ma fuggiva senza lucidità, smessa ogni illusione. Si precipitava di qua e di là in una sorta di strepito silenzioso. A zig zag con giravolte inaspettate come se seguisse il tracciato nei meandri della sua fuga-labirinto.Poi si fermò di colpo, proprio nel centro di quello spazio residuo, ad uguale distanza dai due lupi. Rimase un attimo come in bilico, senza respiro; e si rovesciò su un fianco. Rantolava. L’occhio diventato di vetro, quasi schizzava dall’orbita. L’orecchio pendeva inerte come un drappo ammainato.
Quando il coniglio giaceva ormai inerte con la schiena rotta in più punti ed il ventre a colabrodo, i lupi, uno dopo l’altro, lo afferrarono per la collottola sollevandolo e scuotendolo con forza. Sangue e peli bianchi volarono tutt’attorno. Si accertavano, entrambi, con scrupolo, dell’avvenuto decesso.
Quindi iniziò il banchetto. Ci vollero più di dieci minuti perché quei due piccoli assassini divorassero le interiora, spolpassero il petto, le vertebre cerebrali, le ossa principali del coniglio. Operavano in silenzio, girando ogni tanto la testa, ora l’uno ora l’altra, verso di me con fare interrogativo.
Ma neppure un grammo mancava a quelle carni straziate, non una goccia di sangue era stata bevuta. Più in là i cani. Stesi per terra, gli occhi di fuori, inebetiti dalla stanchezza, la lingua dilatata a penzoloni, il respiro di chi sta per soffocare. Macchiati di sangue dappertutto. Sangue del capretto, ma anche sangue procurato dalla reazione difensiva del capretto, e perfino delle ferite che si erano inferti l’un l’altro, involontariamente, per sprovvedutezza.
Nelle notti senza luna usavo andare giù fino al fiume, dal letto largo e dalla portata rinsecchita, che solca la valle dietro la casa. Un percorso di cinque chilometri, un’ora di cammino. Portavo con me i cani ed i lupi. Camminavo lungo la stradina deserta, assorto in ricordi duri. E cercavo meccanicamente in cielo le costellazioni d’estate, sillabandone i nomi mitici.
Quando si arrivava al fiume i comportamenti non mutavano. I cani proseguivano nei loro giri vari. Di tanto in tanto, sopraffatti da improvvise crisi abbandoniche, interrompevano la loro ricerca senza oggetto per precipitarsi verso di me, mi annusavano, mi facevano feste fastidiose ed isteriche, imbrattandomi di fanghiglia.
I lupi invece giocavano nell’acqua o cacciavano. Sempre in disparte da me e dai cani. Il rumore che provocavano nell’acqua, nella vegetazione o nella seccia avevo imparato a riconoscerlo. C’era solo un problema di soglia-furtivo e flebile bisognava concentrarsi per avvertirlo. Ma avvertito, risultava inconfondibile, cosi diverso da quello privo di pudore dei cani.
Avevo dato fondo, durante quelle escursioni notturne, alle mie attitudini pedagogiche. Avevo provato e riprovato a condizionare il muoversi dei lupi. Volevo, insomma, che quando camminavo mi precedessero di un niente, ad una distanza appena sufficiente per non ricevere la punta della scarpa nel didietro. Come fanno i cuccioli dei cani che sembravano seguire sul davanti il padrone che cammina. E lo spiano ansiosi con la coda dell’occhio.
Ne parlai con Pietro. «Se vuoi camminare di notte fianco a fianco di un lupo indossa sempre gli stessi indumenti, di colore scuro. Percorri la stessa strada. E fai in modo che le tue azioni si succedano nello stesso ordine. Il lupo teme l’imprevedibile. Placa quindi la sua diffidenza ordinando i tuoi gesti, secondo un rituale invariabile come il suo. Muoviti regolare e risoluto, e lasciati scorgere da loro sempre con chiarezza. Evita nel cammino gli uomini, le cose degli uomini, e non trascinarti dietro i cani. Sii solo con i lupi. Nel camminare con loro nella stoppia scegli una forma per il tuo corpo; e non mutarla mai se non per trasmettere intenzionalmente un segnale di pericolo. Impara ad avere paura, ad avere paura dei pali di cemento, delle luci lontane di un automobile, del sibilo dei cavi elettrici, di una busta di plastica accartocciata. Avere la stessa paura è il legame più forte di tutti».
Sono trascorsi cinque mesi da quella sera di luglio, dalla prima volta che la vidi. All’estate è subentrato il sole smarrito d’autunno. Poi l’inverno. C’è la neve ora, attorno al recinto.
Gli occhi, sempre più obliqui, sono ora ornati di ciglia lunghe e spesse. Li tiene di preferenza socchiusi, assumendo così un’aria sorniona, da mercante asiatico. Quando ringhia scopre intera una dentatura senza fine, forte, regolare di un bianco abbagliante. Di tanto in tanto, se la accarezzo o semplicemente le sto vicino, mostra la curva perfetta degli incisivi superiori. Forse un segnale di tenerezza, forse un potere estraneo comanda i muscoli del suo muso. Pietro sostiene che la lupa mi sorride. Ormai ha una corporatura raffrontabile a quella dei cani. Ma è certo più muscolosa e sciolta. Non tratta più la doberman come una madre adottiva. Si è anzi già azzuffata con lei, avendo facilmente la meglio. Dopo i cani non hanno più osato ringhiare in sua presenza; e, anzi, si tengono lontani. Tuttavia temo i lampi di ferocia della lupa ed ho cinto le gole dei cani con collari a punta, per proteggerli da morsi assassini.
Così la lupa attraversa, rinchiusa e sola, le lunghe ore di luce. Aspetta il tramonto per uscire e andare a caccia. Ma in realtà esce assai di rado. Tutto è diventato più difficile. Perché ormai la lupa, quando è libera, non si limita a cacciare le chiaviche. E si spinge lontano. Non teme più come occhi ostili le finestre illuminate delle fattorie. E appena può fa strage nei pollai, qualche volta nelle stalle. I contadini protestano, lamentano con grettezza bugiarda, danni improbabili; e soprattutto, per superstizioso terrore, si sentono, a torto, in pericolo di vita.
La lupa si chiama Kris, contrazione di Krisis. Le ha dato questo nome Fiora, mia moglie, rinchiusa anche lei, in un recinto di stato.
Kris sa del suo nome. E anche se non ubbidisce ai comandi, si gira al richiamo. Si gira e mi guarda con gli occhi socchiusi. Le parlo senza speranza. Solo perché non distolga da me lo sguardo. L’aria sorniona è solo apparente. All’inizio mi fissa con occhi d’acciaio, gelidi, che sembrano dire: cosa vuole, di nuovo, questo estraneo? Ma ancora un attimo e si scioglie. Gli occhi si aprono, le pupille si dilatano e diventano tonde. Se mi avvicino e mi chino, mi annusa pronta la gola; cerca l’incavo sotto il pomo d’adamo e vi passa sopra, lenta e umida, la lingua; a spazzola, come per pulirmi. Certo il tempo non ha intaccato la nostra confidenza complice. Ma è svanito quell’abbandono, quella mollezza dolce che nei selvatici sta per la gioia. Del resto qualcosa è mutato anche nel suo sguardo. Perfino quando, sciolto il ghiaccio degli occhi, mi fissa senza ostilità, trovo dietro a quelle pupille tonde e calde un che di opaco che solo alcuni mesi fa non c’era. Un che di non verbalizzabile. Una parete oscura collocata dentro l’occhio, a profondità fisiologicamente non accertabile, contro la quale sembrano infrangersi le immagini buone del mondo.
Forse sa che nulla le risparmierà il futuro. La malinconia della vita selvaggia potrebbe distruggerla terribilmente fino a ucciderla; di qui a poco, ancor prima che la primavera ritorni. Oppure trascinerà per anni la sua giornata in questa o in altra gabbia, andando avanti e indietro, girando intorno alla propria follia come una belva allo zoo.
Qui il racconto in pdf impaginato con i disegni di Andrea Pazienza: