di Michele Santagata
Di manifestazioni ne avevo fatte e viste tante girando in lungo e in largo la penisola, e l’ultima era stata proprio il Global Forum di Napoli (dove prendemmo mazzate a dire basta), ma quando arrivai a Genova ebbi subito la sensazione di trovarmi in mezzo a qualcosa di diverso dal solito: per la prima volta in vita mia mi sentivo davvero cittadino del mondo. E questo per la massiccia e globale partecipazione di attivisti provenienti da ogni dove ad “una tre giorni” che si proponeva di gridare in faccia ai potenti del mondo, riuniti in quei giorni a Genova, che “un altro mondo è possibile”. Un appuntamento nato a Porto Alegre (Forum Sociale Mondiale), ma prima ancora a Seattle (durante le proteste contro l’Organizzazione mondiale del commercio) dove i “contestatori” vennero per la prima volta definiti: Movimento No-Global. Un Movimento che aveva messo assieme, cosa mai successa prima, “comunisti e sacerdoti”, “suore e black block”, e poi operai, impiegati, ambientalisti, sindacati, scienziati, società civile, organizzazioni non governative, centri sociali e tutto l’associazionismo “umanitario” possibile e immaginabile, tutti accomunati da un unico scopo: costringere i potenti del mondo a fermare il devastante processo di globalizzazione economica pensato dall’ alta finanza mondiale e messo in atto dai paesi più industrializzati del mondo.
L’obiettivo delle grandi multinazionali e dei potenti gruppi industriali, spesso associati in “lobby economiche” a livello mondiale, era quello di “produrre merci”, a discapito dell’ambiente e dei diritti universali dell’uomo, a basso costo, decentrando le produzioni industriali nei paesi dove non esistono i diritti dei lavoratori, e liberalizzando la circolazione delle merci. In sostanza una lattina di coca cola può girare il mondo, un africano no. Un processo che purtroppo non siamo riusciti a fermate, ed oggi, visti i danni prodotti (clima, precarietà, aumento della povertà mondiale, perdita di diritti), possiamo dire che avevamo ragione su tutto.
A dar vita alla mia sensazione il grande corteo dei migranti il primo giorno. Era il 19 luglio del 2001 e una marea di umanità sfilò pacificamente per le strade di Genova in un clima che per tanti della vecchia guardia evocava le magiche giornate di Woodstock. Un lungo serpentone variegato dal quale spuntavano centinaia di cartelli scritti in tutte le lingue del mondo. Una moltitudine di uomini e donne disposti a mettere in gioco i propri corpi per costruire un mondo più giusto e più solidale. Una bolgia di fratellanza convinta della giustezza delle proprie idee, ma con la consapevolezza di avere di fronte un nemico forte e agguerrito che difficilmente avrebbe concesso qualcosa al resto del mondo. E fu proprio lì, in mezzo a quei colori, che la mia mente rispolverò le antiche letture e il pensiero si fermò a “Valle Giulia”. Lo dico: mi sentivo un po’ come quei ragazzi, e come loro anche io speravo di accendere la miccia della “rivolta”. Non so dire se i compagni che parteciparono agli scontri di Valle Giulia fossero consapevoli che da quel gesto politico sarebbe nato il 68, ma per me era oramai chiaro di partecipare ad un evento che sarebbe entrato nei libri di storia.
Gli annunci di violare la zona rossa erano stati il leitmotiv pronunciato dagli organizzatori ad ogni conferenza stampa. E il giorno fatidico era arrivato, siamo al 20 luglio del 2001. Avevo passato la notte, dopo il corteo dei migranti, in un cortile di una scuola in via Redipuglia, in tenda. Un “campeggio” occupato dal sindacalismo di base. C’erano gruppi provenienti da tutte le parti d’Europa: greci, olandesi, tedeschi, spagnoli, francesi, inglesi. Per l’occasione il comune di Genova mise a disposizione dei manifestanti diverse scuole tra cui la famigerata scuola Diaz, e lo stadio Carlini dove “alloggiava” il grosso delle truppe denominate tute bianche che tanto avevano lavorato per dotare il corteo del pomeriggio di un minimo di difesa passiva per far fronte a quella che si preannunciava come una intensa giornata di “lotta”. Il clima politico di odio verso i manifestanti, fomentato dall’allora governo Berlusconi/Fini non lasciava presagire altro.
Attorno alle 11,00 insieme ad altri compagni mi avviai verso piazza Paolo da Novi, scelta dal sindacalismo di base come luogo dove concentrare tutte le “sigle” e dare inizio al loro pezzo di corteo che si sarebbe dovuto congiungere, nel primo pomeriggio, alla manifestazione principale delle “tute bianche” in via Tolemaide. Arriviamo che già la piazza brulica di compagni. Gli striscioni e i cartelli campeggiano alti. E c’è già chi incita alla “marcia”. Ma mancano all’appello i compagni greci da poco sbarcati nel porto di Genova. Bisogna aspettare il loro arrivo in piazza. Ed è durante questa attesa che si manifestano per la prima volta, ai miei occhi, i famosi black block. A fare il loro trionfale ingresso in piazza un gruppo composto da diverse centinaia di individui rigorosamente vestiti in nero e con il volto coperto da un passamontagna, preceduti da una sorta di “fanfara” i cui componenti in termini di estetica non avevano niente da invidiare agli abitanti di Batser Town, la mitica città descritta nella trilogia di Mad Max. Fu una visione apocalittica, proprio come i loro vestiti. In men che non si dica si impossessarono della piazza costruendo barricate attorno ai tre lati, lasciando ai manifestanti una sola via d’uscita. Con fare organizzato iniziarono ad armarsi di sanpietrini ricavati dai marciapiedi, e una volta pronti scatenarono l’inferno. Di scontri ne avevo già visti e vissuti, ma non avevo mai visto un gruppo così organizzato e preparato alla battaglia: erano degli esperti in guerriglia urbana. Il che la dice lunga su quello che oggi è diventata una verità storica e giudiziaria: centinaia furono i poliziotti e i carabinieri infiltrati in questi gruppi con lo scopo di creare panico e scontri per poter dare poi la colpa ai manifestanti e legittimare quello che sarebbe avvenuto da lì a poco: la macelleria messicana nella Diaz, e la mattanza nel pacifico corteo del 21 luglio 2001.
Non passa neanche mezz’ora dal loro arrivo in piazza che la celere inizia indiscriminatamente a caricare a più non posso. La piazza brucia e l’odore acre dei lacrimogeni toglie il respiro. Inizia un fuggi fuggi generale, in tanti, come me, perdono il contatto con il corteo, e mi trovo stretto tra le cariche della celere, e il mordi e fuggi dei black block. Da quel momento in poi inizia per me un viaggio in una città devastata da una vera e propria battaglia che durerà oltre 24 ore. Non ho altra scelta che seguire la scia dei black block che si muovono nei vicoli della città con cognizione e precisione. Sanno dove colpire e come fuggire. Si spostano con precisi schemi e chiari obiettivi. E la convinzione sulla loro provenienza da altre città europee, così come è sempre stato detto dai responsabili dell’ordine pubblico di quei giorni, inizia a vacillare.
Tutto il centro di Genova, ogni vicolo, strada, piazza è teatro di scontri tra manifestanti e polizia. I defender dei carabinieri girano per le strade compiendo dei veri e propri rastrellamenti. Manganellano chiunque gli capiti a tiro. Non fanno distinzioni. Le auto bruciano e le nere colonne di fumo si alzano dritte verso il cielo, mentre il fumo denso dei gas penetra in ogni dove. E gli scontri diventano sempre più duri.
Sono ore che vago per la città insieme ad altri compagni cercando il modo di sfuggire ai rastrellamenti. Dobbiamo raggiungere il corteo delle tute bianche in via Tolemaide. Restare isolati è davvero pericoloso. Così ci avventuriamo per le strade di Genova barcamenandoci tra manganelli e lacrimogeni, con la speranza di raggiungere incolumi il grosso del corteo. Riusciamo ad arrivare, sono da poche passate le 15,00, quello che vediamo è un fiume di gente. Le notizie degli scontri hanno raggiunto il corteo, e la tensione è alta. E proprio quando credevano di essere al sicuro, ecco che succede il finimondo. All’improvviso e senza alcun motivo diversi reparti dei carabinieri partono alla carica e attaccano il corteo che riesce a difendersi per pochi minuti per poi cedere alle cariche selvagge dei defender e dei cellulari lanciati a velocità contro la folla. Riesplode la guerriglia, arrivano sul posto diversi reparti di poliziotti e carabinieri con un ordine preciso: pestare a sangue i manifestanti. La caccia al No-Global è aperta. Il corteo indietreggia e i promotori gridano dai megafoni di “ritirarsi” al Carlini, ma la polizia ha spezzato il corteo e in tanti si ritrovano a dover prendere altre strade per uscire da quell’inferno. Diversi finiscono sotto i manganelli della polizia, mentre io cerco di capire che direzione prendere, ma le strade sono sbarrate, e allora insieme ad altri sfondiamo un portone e ci barrichiamo dentro, sono quasi le 17,00.
Gli scontri non si placano. Il rumore delle sirene e delle vetrine sfondate riecheggia per tutta la città. Non sapevo in quale via mi trovavo, ma decidiamo che dobbiamo muoverci, bisogna uscire dal centro e cercare di arrivare al “campeggio”. E così facciamo, percorriamo qualche isolato e ci troviamo in una piazza piena di poliziotti, uno dei quali urlava (a favore di telecamera) all’indirizzo di un nutrito gruppo di manifestanti frasi del tipo: “brutto pezzo di merda, lo hai ammazzato tu col tuo sasso”. Non avevo capito cosa volesse dire, ma bastò allungare lo sguardo per scorgere a terra il corpo esamine di un giovane che grondava sangue dalla testa: erano le 17, 30 del 20 luglio del 2001, e in piazza Alimonda il carabiniere Mario Placanica aveva appena sparato al giovane manifestante Carlo Giuliani. Una scena che non dimenticherò mai.
La notizia della morte di Carlo si diffuse in un batter d’occhio, e lo sconcerto si impossessò dei manifestanti. La rabbia prese il sopravvento e gli scontri divennero ancora più violenti. La situazione era sfuggita di mano ai responsabili dell’ordine pubblico gli unici veri responsabili, insieme ai politici di allora, di quanto accaduto in quei giorni. Le loro provocazioni da infiltrati erano degenerate creando un vero e proprio moto di rivolta nei manifestanti che nessuno degli organizzatori aveva preventivato. Quello che fecero i manifestanti, che è poi era quello che cercava di fare il povero Carlo con un estintore in mano, fu solo difendersi dai vili attacchi di plotoni di poliziotti aizzati dalla politica, e comandati dai loro dirigenti “a menar duro”. Volevano dare una lezione al “Movimento” e c‘erano riusciti. Non contenti continuarono per tutta la notte a dare la caccia ai “no-global”, fino a mettere in scena con feroce crudeltà la mattanza alla scuola Diaz. Costruirono prove false contro i manifestanti per giustificare la loro gratuita violenza, e per la prima volta dalla nascita della repubblica, lo stato si era reso colpevole della sospensione dei diritti costituzionali. Tutte verità venute a galla nei tanti processi che si sono celebrati sugli eventi che caratterizzarono quelle giornate. Ma all’oggi nessuno dei responsabili ha concretamente pagato.
Per questi eventi a distanza di 16 mesi, nel novembre del 2002, fui arrestato assieme ad altri 12 compagni, nella famosa operazione condotta dalla procura di Cosenza denominata “operazione No-Global”. Ci vollero oltre 12 anni, un mese di carcere speciale e due anni di libertà vigilata per dimostrare in tutti i tre gradi di giudizio la nostra completa estraneità ai fatti. Il vano tentativo di accollarci le responsabilità morali e materiali dei tragici eventi di quei giorni, da parte dei corrotti e degli infami di stato, era fallito. E questo grazie alla forte mobilitazione di piazza che caratterizzò i giorni del nostro arresto. Una forte indignazione pubblica costrinse gli infedeli servitori dello stato a fare marcia indietro. Non prima però di ricevere una bella promozione con annesso aumento di stipendio. Il premio per aver eseguito gli infami ordini ricevuti dalla malapolitica che ancora oggi, a distanza di vent’anni, e nonostante le chiare sentenze di condanna, fatica ad ammettere le proprie responsabilità.