(di Alessandro Robecchi – ilfattoquotidiano.it) – Capisco bene l’irritazione per gli affari di pochi farabutti oliati con soldi di tutti, cioè nostri, le infiltrazioni mafiose, i favori, le cortesie per gli ospiti, le spartizioni decise sugli yacht, le porcherie, la corruzione, gli affidamenti agli amici, ai figli, i bracci destri, sinistri, e tutta la merda del nostro scontento. Va bene, non è una cosa nuova, non ci stupiremo per questo. E nemmeno per le reazioni: eh, piano, piedi di piombo, terzo grado di giudizio, presunzione di innocenza, cose-che-si-dicono-al-telefono, e tutto il campionario che balza fuori ogni volta che si becca un potente, e che manca all’appello per gli sfigati. Se ci fate caso il famoso ipergarantismo, come tutto il resto, è una questione di reddito, se ne fa gran dispiego a corrente alternata, perché quando c’è da giudicare un poveraccio, invece è tutto un pene esemplari e buttare la chiave.
Lo so, non vi dico niente di nuovo. Ed è anche per questo che non intendo qui parlare di indagini, processi, giudici, interrogatori e cose così, come si dice: la giustizia faccia il suo corso, ma mi preme invece cogliere il lato per così dire culturale della faccenda, deprimente tanto quanto.
Letta qualche intercettazione, qualche sintesi dei giornali, spiluccando qui e là nella mediocretta weltanschauung dei coinvolti – indagati e non – ci ritroviamo in bilico tra suggestioni letterarie e para-letterarie, più o meno nobili, più o meno sconvenienti. I più colti potrebbero trovarsi catapultati nei racconti esilaranti di un Damon Runyon, quello di Bulli e pupe e di altri mirabolantissimi racconti. Roba magistralmente scritta negli anni Venti e Trenta, piena di biscazzieri, gangster, proprietari dei moli sull’Hudson, signorine allegre, Casinò e dollari facili.