Giorgia e Arianna, sorelle d’Italia: il governo familiare che sa di monarchia

(FLAVIA PERINA – lastampa.it) – C’erano una volta gli organi dirigenti determinati dalle vittorie congressuali. Poi vennero i cerchi magici. I gigli magici. Le geometrie variabili del grillismo con le liste dei fidatissimi che cambiavano ogni settimana insieme all’umore dell’Altissimo, e insomma: ora che Giorgia Meloni ha nominato sua sorella Arianna a uno degli incarichi da sempre più rilevanti negli organigrammi della destra (responsabile della Segreteria politica) possiamo moderare lo stupore. La vera novità non è tanto la cooptazione a Primo Cavaliere di una apparente outsider ma semmai il fatto che anche a destra, nella destra orgogliosa del suo status di partito “vero”, strutturato, con gerarchie determinate dai congressi, nella destra degli underdog cresciuti tutti insieme in un rapporto di celebrata lealtà, il capo si rivolga alla sua parente più stretta per gestire il ruolo-principe nel controllo della struttura del partito.

L’evoluzione in direzione monarchica dell’assetto dei partiti italiani – il sovrano impone la spada e introna il Lord – è in corso da un bel pezzo. Già trent’anni fa nella foto di gruppo dei potentissimi berlusconiani c’era un team senza alcun incarico ufficiale che però costituiva la tavola rotonda di ogni decisione in virtù della fratellanza col Cavaliere: Fedele Confalonieri, Adriano Galliani, Gianni Letta e Marcello Dell’Utri, il gruppo del famoso jogging alle Bermuda. Per non dire della corte familiare che governò a lungo il destino della Lega bossiana, Manuela Bossi, il figlio Renzo, il figlioccio Marco Reguzzoni e Rosi Mauro, pure loro apparentemente estranei alla struttura e però padroni delle scelte. Meloni alla fine ha imboccato la stessa strada ma ha voluto “ufficializzare” un rapporto che per anni ha agito dietro le quinte: la titolarità della segreteria è il terzo incarico formale che Arianna riceve tra l’inizio di luglio e oggi, dopo la responsabilità del tesseramento e l’inserimento nel CdA della Fondazione An e del suo colossale patrimonio.

La triplete risulta senza dubbio un atto di forza: in nessun altro partito scelte del genere sarebbero passate senza contraccolpi, ma segnala anche la fragilità dei vecchi assetti. Mai come adesso le due colonne del progetto iniziale di FdI, i cofondatori Ignazio La Russa e Guido Crosetto, sembrano ammaccati nel ruolo che gli era stato assegnato, l’uno a presidio delle antiche filiere elettorali della Fiamma e l’altro a garanzia del mondo moderato che un anno fa ha scelto di dare una chance alla destra. Quei due racconti, che nell’epoca del quattro per cento stavano insieme senza guai, ora sono diventati un corpo a corpo, una dannazione. Le gaffes o le intemperanze verbali c’entrano poco. C’entrano i vincoli che il rapporto con entrambi ha imposto alla premier. Dal lato di La Russa, la difesa di Daniela Santanchè, che probabilmente sarebbe stata più tiepida se la premier avesse potuto fare di testa sua, senza l’obbligo di tenere in conto gli stretti legami tra la ministra e il presidente del Senato. E dal lato di Crosetto la gran rivolta della base e dei quadri intermedi dopo la rimozione dall’incarico del generale Roberto Vannacci, con i conseguenti sospetti, così larghi che persino Il Giornale li ha messi in prima pagina: cosa vuole il ministro della Difesa? Diventare il Franceschini della destra? Costruirsi un ruolo di riserva della Repubblica? Forse il Quirinale?

Ecco, tutto fa pensare che Meloni abbia deciso di rompere gli indugi e di superare quel vecchio modello. L’antico triumvirato deve cedere spazio a una fase nuova, a un melonismo “in purezza” che in tempi normali, i tempi del partitino e del controllo assoluto su ogni dinamica interna, sarebbe scaturito da un congresso (e infatti fino alla primavera scorsa se ne è parlato tantissimo, indicandone persino la scadenza per questo autunno). Ma figuriamoci come sarebbe finita adesso un’assise nazionale di FdI, con una segreteria indiscutibile ma ogni altro organo sottoposto al voto, tra tesseramenti decuplicati dal successo, nuovi iscritti incontrollabili, faide storiche come quella del Lazio sommate agli incombenti duelli per le Europee e alle prossime amministrative, e in più l’ombra di una campagna acquisti dei delusi da parte della Lega, o della nascita di una nuova ultradestra guidata da Gianni Alemanno. Impossibile, impensabile. Il melonismo in purezza nascerà altrimenti, anzi è già nato con il tocco della sovrana sulla spalla di sua sorella.

Dice Giovanni Donzelli che il ruolo affidato ad Arianna Meloni è lo stesso che per moltissimo tempo, sotto la segreteria di Gianfranco Fini, svolse Donato Lamorte, figura poco nota ai più ma rilevantissima nelle vicende interne del Msi e di An. Era a tutti gli effetti l’alter-ego del segretario nazionale del partito in ogni comunicazione, segnalazione, richiesta, arrivato all’incarico dopo una lunghissima gavetta da dirigente romano. «L’ha detto Donato» faceva Cassazione. Magari Donzelli ha usato il paragone per addolcire la pillola a chi ha difficoltà a mandarla giù, ma in realtà ha evidenziato un dato che rompe ogni narrazione precedente su FdI: va bene la comunità degli underdog, cresciuta sotto lo stesso cielo, nello stesso recinto, legata dallo stesso patto d’onore, ma alla fin fine, dovendo scegliersi un Primo Cavaliere, la premier-sovrana si fida solo del sangue del suo sangue.