Giustizia nel caos. Figli del Csm e figliastri meridionali (di Lucia Spadafora)

di Lucia Spadafora

Con l’introduzione nel 2011 del Codice Antimafia, è stato perfezionato il corollario anticostituzionale delle prescrizioni antimafia. La matrice della normativa antimafia, di cui l’art. 416 bis c.p. è il caposaldo in chiave moderna, è da ricercare per la prima volta nel 1863 nella emanazione di un regio decreto sabaudo noto come “Legge Pica”, che introduceva una legge speciale, marziale.

Fu una trovata del Regno Sabaudo a giustificazione del genocidio messo in atto dall’esercito reale e del suo corpo speciale “fedele nei secoli”, che montò ad arte la “questione meridionale”, per fini tutt’altro che nobili: razziare un Regno ricco e pacifico, quello delle Due Sicilie e farlo diventare colonia.

L’esigenza di reintrodurre tale legge speciale, a ragion veduta, nacque negli anni ’80 a seguito delle stragi mafiose in cui rimasero uccisi tra i tanti civili, anche alcuni dei più alti esponenti delle cariche dello Stato. Fu insomma una grave emergenza sociale a giustificare l’adozione di misure speciali.

Oggi però pare che quella emergenza che reintrodusse l’eccezione normativa sia diventata la regola, nonostante il periodo delle stragi mafiose sia “solo” un drammatico ricordo di un tristissimo ed oscuro spaccato della storia italiana da condannare duramente e malgrado l’autorevole voce di Nicola Gratteri – fabbricatore disinteressato di una mitologia sulla mafia più potente al mondo (per intenderci quella che ruba un maiale per portare beneficio all’associazione) -, sostenga che la ‘ndrangheta non opera come “cosa nostra stragista” e che i suoi interessi sono più che altro economico – finanziari (visti gli ultimi accadimenti al CSM è ancora più chiaro di cosa parli). 

Ora come nel 1863, questa dura repressione continua ad operare nei confronti dei meridionali, perché il fenomeno mafioso parrebbe essere una questione, mai risolta e mai risolvibile, di ereditarietà, di genetica, di fisionomia, di appartenenza ad una terra e ad un popolo, ad un cognome, che si rigenera senza sosta, esattamente come sostenuto da quello scienziato di Lombroso.

Attualmente si vive in un clima di terrore, in cui basta un niente e ci si ritrova marchiati a fuoco con una lettera scarlatta. La cultura del sospetto – favorita dalle “correnti” -, in piena sincronia costituzionale, permette di assassinare civilmente persone, un popolo, un territorio. Come se tutto ciò non fosse già anni luce oltre il limite della tollerabilità e della legalità, si è voluto superare ogni immaginazione, e calpestando lo stato di diritto, sono state introdotte tutta una serie di norme raccolte per l’appunto nel famigerato Codice Antimafia, che definire solo incostituzionali è da inguaribili ottimisti.

Tra le aberrazioni dello Stato di Diritto in esso contenute, quella delle interdittive antimafia, del sequestro e della confisca dei beni e della loro conseguente gestione, sono tra le più discutibili.

Le interdittive antimafia sono un Giano bifronte, uno strumento amministrativo che infligge conseguenze penali senza passare dal via.

Cosa significa? Significa che per l’esclusiva logica del sospetto, chiunque non sia di gradimento del prefetto, su consiglio della procura (sempre straordinariamente ben disposta), può subire un assassinio civile dal quale non può neppure difendersi. Non lo può fare esclusivamente perché la mala sorte non dipende dall’esito di una indagine, da un procedimento penale, da una condanna con sentenza definitiva o comunque da responsabilità vere, no, dipende solo ed esclusivamente dall’arbitrio del giudizio di un prefetto e della procura. Giusto perché siamo un Paese civile!

Se per caso chiunque dovesse essere indicato in una informativa delle forze dell’ordine per una qualunque remota ipotesi che da sola non è sufficiente a conferirgli lo status di indagato, chiunque venga implicato in un procedimento penale e poi assolto, chiunque abbia legami di parentela anche lontanissima con qualche attenzionato dalle forze dell’ordine, ecco che questo chiunque viene privato della propria dignità, viene privato del diritto al lavoro, vede dilazionati all’infinito i crediti che vanta, perde ogni capacità contrattuale:  viene interdetto a vita senza neppure poter fare valere le proprie ragioni di fronte ad alcun tribunale penale – non che si debba sperare di ottenere grazia laddove si dispensa (in)giustizia -.

L’ unico riferimento al quale si può adire è il tribunale amministrativo, il TAR, che seguendo il trend consolidato di rigettare ogni ricorso, solo in caso di estrema fortuna – e  che fortuna! -, potrebbe capitare che metta a disposizione degli strumenti penali per allungare l’agonia. D’altronde su un sospetto di pericolosità o di corruttibilità mafiosa, come potrebbe pronunciarsi un giudice amministrativo, prendendosi tra l’altro il fardello di dover subire le ire delle “correnti”? 

Ciò che non si dice è che agli occhi della società il malaugurato diventa uno che avendo subìto un’ interdittiva antimafia deve per forza aver  compiuto chissà che di grave, e quindi diventa convenzionalmente  un mafioso. Quale riabilitazione potrebbe mai essere possibile per uno sfregio simile?

I sequestri e le confische dei beni alle mafie e la creazione dell’ANBSC (agenzia nazionale per l’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata) per la loro gestione, racchiudono in sé l’essenza romantica di tutto il disegno razziatore della combriccola dell’ antimafia. Immaginiamo quale grande occasione per entrare in possesso di beni aziendali e non, affidarne la gestione sia burocratica che di conduzione aziendale agli amici che gravitano attorno alla banda dei puri.

Giri plurimilionari di danaro in mano a pochi adepti prescelti, affidamenti discutibili e nessuna possibilità di difesa e di riscatto per i razziati. E non è necessario essere dei mafiosi per subire un sequestro od una confisca. Cosa invece bisogna essere per ottenere l’affidamento di questi beni, senza voler influenzare alcuna opinione, lo lascio alla fantasia del lettore.

Ma ora passiamo allo scandalo del CSM. E’ verità taciuta eppur conclamata che si tratta di una organizzazione mafiosa per definizione. Il 3° comma dell’articolo 416 bis codice penale recita così: “L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento ed omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto od indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione delle consultazioni elettorali”.

C’è forse scritto da qualche parte “applicabile solo ai meridionali”, ” applicabile a quelli che si chiamano …” oppure “i poteri dello Stato sono esclusi dall’accusa di associazione mafiosa”, “da Roma in su il reato viene derubricato nel reato di corruzione semplice”, “i magistrati ed i giudici come cadono e cadono, devono cadere sempre in piedi? No, non c’è scritto da nessuna parte!

Ora per analogia, traiamo delle lampanti conclusioni: una banda di magistrati-giudici, che fa vivere nel terrore un intero territorio, il quale subisce una forza intimidatrice che lascia presagire conseguenze funeste qualora qualcuno avesse da ridire contro un potere verso cui nessun sano di mente oserebbe mai sollevare alcuna obiezione, un potere che gestisce interessi economici, concorsi pubblici dietro pagamento di corrispettivo – MAZZETTE, chiamiamole MAZZETTE –, un potere corporativizzato finalizzato alla gestione di ogni aspetto della vita politica ed economica di un territorio (con sequestri e confische per l’appunto), un potere che gestisce direttamente e/o indirettamente le concessioni di beni pubblici, appalti e servizi pubblici, un potere che ostacola il libero esercizio del voto in ogni fase con lo scioglimento ed il commissariamento ad nutum dei comuni (salvo poi nominare commissari non per amicizia, si intenda), un potere che per dirla con le stesse parole di Nicola Gratteri “controlla il battito del territorio”, questo stesso potere, per quale ignobile ragione non subisce misure cautelari preventive, non viene sciolto e commissariato e non viene infine processato per associazione mafiosa ex art 416 bis da una corte marziale alla luce dei fatti in corso di svolgimento?

Perché non vengono sequestrati in via cautelativa e confiscati poi, i beni dei componenti del CSM e dell’ANM coinvolti e dei rispettivi parenti, perché non subiscono le interdittive antimafia tutti quelli che seppur non implicati hanno anche solo preso un solo e sporadico contatto con loro? A tutti senza distinzione alcuna, per lo stesso principio del contagio che viene applicato ai poveri malcapitati, dato che ormai  la questione dell’aver arrecato beneficio a sé e ad altri partecipanti all’associazione mafiosa denominata “Corrente”, è cosa assodata e di dominio pubblico (non che prima non si sapesse, ma come si sa, i pentiti come Palamara, non quelli creati ad hoc per aggiustare i processi, servono proprio a fornire riscontri)?

Una risposta c’è e la fornisce sempre Nicola Gratteri: “il re non fa corna”, ed i boss le regole le fanno rispettare, non le rispettano! Siamo davvero tutti sicuri che tutto ciò debba continuare impunemente?

La mafia esiste e fa schifo, ma è un organismo non in grado di autofagocitarsi!