Il Dio dello Stretto

Il Dio dello Stretto
(15 luglio 97)

di Gioacchino Criaco 

Il Genio è la bestemmia degli Dei: condanna gli eroi di ogni Omero alla morte in terra straniera. Salva solo la scaltrezza di Ulisse. Più sono ampie le ali più il cielo abbatte il volo.
Devi nascere a Sparta per capire l’Estetica pura di Atene e scegliere il ritiro ascetico fra l’eremo di Scilla e il covo di Cariddi, unico svago le scampagnate sulla 106 Jonica, storia prima della storia, a guardare le soap di Ruggieri e Gallicella, e vestire di seta e ginestra l’amore fra Aspramonte e Mongibello.

Esci da brigante dai faggi di Montalto per sorprendere lo Stretto che s’impossessa della magia di Morgana, sale sopra un altare pagano e celebra gli amori impossibili, si tocca le parti basse per esorcizzare progetti padani come frecce contro talloni sacri.
E’ qui che l’uomo ha la bellezza sufficiente per trascendere l’uomo, solo qui alberga un Dio che rinnega guerre e dispute. Solo qui poteva nascere un imperatore del sogno.
Nel palmo fra le cinque dita, sullo schermo il fermo immagine di Achille che si mette Troia sulle ginocchia, la bacia sulla bocca e Alessandro porta al galoppo Bucefalo fino allo sfianco davanti alla sola colonna di Capo Colonna.

Nik ritrova la parola mischia le storie: Nosside si prende Rolando, Milone si frappone ai Dioscuri, le Querce sacre ammaestrano Bernardino e Tommaso cullandoseli sotto i grandi riccioli.
Gianni attraversa a passi lunghi la passerella di Cannes accenna pose di un film che per girarlo servirebbe il sunto di Visconti e Fellini, Scorsese con Tarantino a bottega.
Una bellezza variopinta, leggera di vanità e spessa di millenni, si incunea fra due sponde, le allarga e l’orizzonte si espande, risale, isola la terra in mezzo e diventa orizzonte triplice: perfino il mondo è spazio minuto per contenere il Sole.
Ulisse forza il blocco e Dioniso si solleva sui palmenti sopra le passioni avvinghiate del corallo del vino.

Una terra fuori misura e fuori tiro per massai/ie, fatta per grandi imprese e rinchiusa a scasare il boccino al ritrovo degli anziani, dietro a un distributore di benzina che offre Peroni, gelati Gelca e bombole di gas.
Gianni apre le porte a una voglia compressa di vita, di gioia. La lunghezza di un soffio, il tuono di un lampo nel cielo sereno dell’estate. L’inverno repentino di uno spazio che torna angolo si lascia mettere il guinzaglio e si fa portare al parco a fare i bisogni.
L’abbandono del Dio e la rassegnazione a farsi misurare le giornate dai mattinali delle questure.

Rinnegare le profezie dei filosofi e portare sui palchi pensionati con gingle senili, accantonando le percussioni ossessive nate sui petti di chi non conobbe la resa.
I fratelli Porcaro abbandonano Polsi per portare nel continente nuovo le percussioni dell’Aspromonte, suono cupo d’accompagno alla discesa del Dio dello Stretto che va a morire in un ospedale lontano, si lascia tumulare fuori dalla vista dei tre mari, come uno qualunque della diaspora, come sempre per quasi tutti i figli del Sud.

L’Estetica anarchica di Atene si sottrae, Sparta risorge sul trucco di luce di un prestigiatore assunto con le domande ATA, l’oriente scompare dentro la retorica occidentale di regole strangolanti, di normodotazioni. Di uno svizzerismo a modello, ridicolo solo a pensarlo.
Nati dai terremoti e dalle eruzioni si dorme all’ombra lattiginosa delle magnolie e si torna nel mondo quando qualcuno per inciampo allarga lo Stretto e scuote dal sonno.
Viviamo così, popolo d’Avvento, in attesa di un altro e prossimo Dio tutto nostro del cui arrivo siamo certi ma non sappiamo né il se né il quando.