(di Antonio Padellaro – ilfattoquotidiano.it) – Può la mobilitazione referendaria terremotare i governi? Fu, per esempio, un referendum a segnare l’inizio della fine della Prima Repubblica: quello del 9 giugno 1991 voluto da Mario Segni e altri (tra i quali Carlo Bo, Umberto Agnelli, Luca di Montezemolo, Rita-Levi Montalcini) che raccolsero le firme per introdurre una legge elettorale uninominale a doppio turno ispirata al modello francese. Dopo l’esame della Corte Costituzionale, dell’ambizioso progetto sopravvisse soltanto il quesito sull’abolizione delle preferenze plurime cosicché il voto degli italiani si concentrò sull’introduzione della preferenza unica. Ma fu lo stesso un terremoto.
Anche allora i partiti al potere puntarono sull’astensionismo. Restano celebri gli inviti di Bettino Craxi e Umberto Bossi ad “andare al mare” invece che alle urne. Nonostante questo, o forse proprio per questo l’affluenza superò il 62% degli aventi diritto e i “sì” sfondarono il 95% dei consensi. Dissero alcuni osservatori che al di là del quesito piuttosto tecnico questa massa di elettori comprese che se la partitocrazia invitava al non voto andare a votare diventava automaticamente cosa buona e giusta. Infatti, quel referendum si trasformò in uno strumento di rivolta morale degli italiani contro le degenerazioni della politica dominante. Che di lì a poco sarebbe stata travolta dall’inchiesta di Mani Pulite sulla Tangentopoli dei partiti.
Cosa c’entri tutto ciò con i referendum su cui saremo chiamati ad esprimerci l’8 e il 9 giugno è presto detto. Trattasi infatti di una consultazione popolare sui temi del lavoro (abolizione del jobs act, maggiori tutele nel campo degli infortuni) promossa dalla Cgil di Maurizio Landini. A cui “Più Europa” ha aggiunto il quesito sulla possibilità di abbreviare da dieci a cinque gli anni di residenza regolare per richiedere la cittadinanza italiana. Al di là del merito delle questioni non sarebbe questa un’occasione propizia di mobilitazione popolare per l’opposizione tutta? Parliamo di quei leader che sbraitano ogni momento contro il governo Meloni e che, alla prova dei fatti, attraverso il superamento del quorum (50% più uno) potrebbero, finalmente, mandare un segnale forte al governo delle destre. Che sta vivendo forse il suo momento di maggiore debolezza diviso su (quasi) tutto tranne che sulle poltrone. A cosa serve chiedere alla Rai quel minimo di informazione dovuta che, tuttavia, limitata all’esame dei quesiti di natura piuttosto tecnica può dissuadere dal voto piuttosto che incentivarlo? Quando invece una campagna degli ultimi giorni concentrata sulla possibile spallata al governo Meloni, oltre a essere ben compresa dai cittadini, servirebbe a scuotere dall’apatia il popolo dell’opposizione rassegnato alla sconfitta (benché nel 2022 avesse raccolto rispetto alla destra tre milioni di voti in più, vanificati dalle divisioni dei cari leader). Si dirà che, al contrario, una scarsa affluenza alle urne si rivelerebbe un boomerang per Schlein, Conte e compagnia cantante. Soprattutto se si caricasse di significati fortemente politici la sfida. Ok, ma perso per perso dov’è la differenza?









