Andò male eh?
“Partì la parabola, il loro capitano Seeler saltò altissimo e rimise il pallone al centro. Müller, un rapinatore d’area, la sfiorò appena di testa. Sbagliò a colpire la palla, l’avesse presa bene io o Albertosi ci saremmo arrivati. Invece scivolò sul mio fianco sinistro ed entrò in porta. Pareggio”.
Tutti ricordano il suo gesto di rabbia: diede davvero una testata al palo?
“Volevo farlo, ma mi trattenni. Albertosi sacramentava verso di me, gli dissi: adesso mi tocca andare a fare gol. Mi sentivo responsabile”.
E poi?
“Presi la palla a centrocampo, volevo dribblarli tutti e andare in porta. Ma vidi un muro bianco di maglie avversarie. Passai corto a Facchetti, che lanciò Boninsegna sulla sinistra, lui resistette a una carica, andò sul fondo e crossò rasoterra in area”.
Chi c’era in area?
“Io. Avevo seguito l’azione. Dovevo segnare”.
Un gol incredibile. Come si fa a essere così freddi?
“Istinto, tecnica e talento. Ero partito per mettere la palla di sinistro sul palo opposto. Con la coda dell’occhio vidi il portiere andare da quella parte e in una frazione di secondo cambiai idea: colpii di piatto destro. Presi Maier in contropiede e fu il 4-3”.
Qualcuno la chiama classe, no?
“Qualcuno la chiama classe”.
Chiuda gli occhi per un istante e torni all’Azteca: che cosa le passò in mente?
“In campo non si pensa a nulla, se non a fare un gol in più degli altri. Non senti la tensione, né l’odore dell’erba, né il tuo respiro o quello enorme del pubblico. C’è la partita e basta”.
Lei ha esordito in serie A a 15 anni, nel 1958. Un fenomeno. Qual era il suo sogno?
“Volevo solo giocare a pallone e vincere: è stato il mio divertimento. Quando ho smesso col Milan a 36 anni mi sono emozionato per la prima e ultima volta”.
Faceva la raccolta di figurine?
“Mai completata. Ma ne ho ancora due, da qualche parte: Rivera con la maglia dell’Alessandria e del Milan, le mie uniche squadre”.
E i suoi genitori?
“Venivano dalla campagna. Pensi un po’, mio padre divenne fabbro perché a fare il contadino si faticava troppo. Mia madre badava alla casa. La domenica per loro era l’unico svago, erano in tribuna a vedermi. Io mi raccomandavo: neppure una parola. Una volta mia madre mi disse che aveva faticato a starsene zitta: Gianni, uno ha gridato Rivera figlio di puttana. Le ho dato un bacio”.
Dodici anni dopo il debutto, quel gol alla Germania: si rese conto che facevate la storia?
“Ci raccontarono che si erano riversati tutti nelle piazze, come non era mai successo per una partita di calcio. Era stata l’Italia intera a vincere. Insieme, accomunati dalla stessa felicità. Anche la politica scese in campo bipartisan: un fatto unico”.
Già, la politica. All’epoca lei disse che fu la politica a impedirle di giocare la finale col Brasile, malgrado i tifosi la invocassero compatti. È vero?
“Quando la politica entra in cose che non la riguardano fa grossi danni”.
Si riferisce alla famigerata alternanza con Mazzola?
“Io e Sandro giocavamo insieme in Nazionale prima del Mondiale. E continuammo a farlo anche dopo. Ma in Messico successe qualcosa che non capivo. Annusai l’aria e mi sfogai con un paio di giornalisti: vogliono farmi fuori. Eppure l’anno precedente avevo vinto il Pallone d’oro, primo italiano dopo l’oriundo Sivori. Scoppiò un putiferio”.
Così nacque la staffetta Mazzola-Rivera, anticipando di 13 anni quella tra Craxi e De Mita al governo. Errore chiama errore, la politica che copia la politica?
“È il vizio del compromesso all’italiana. Per farmi scudo da Roma arrivarono il presidente del Milan, Carraro, e il mio allenatore Rocco. Il numero uno della Federcalcio, il fiorentino Franchi, da ottimo politico si riunì con lo staff e trovò una soluzione che mettesse insieme i pezzi. Si decise a tavolino che io e Mazzola avremmo fatto un tempo per uno. Tecnicamente era un nonsenso, non si poteva stabilire in anticipo una mossa tattica così: io e Sandro la pensavamo allo stesso modo, era assurdo”.
uindi lei doveva entrare nel secondo tempo della finale con il Brasile. Perché restò in panchina?
“Non l’ho mai saputo. Nell’intervallo della partita Mazzola si tolse le scarpette: era convinto di dover uscire. Ma io avevo capito che non avrei giocato”.
Quanto le pesò entrare in campo a soli 6 minuti dalla fine?
“Ero tra i più freschi, avrei avuto libertà di movimento contro una squadra che trascurava la difesa. Era la mia partita ideale, più di tutte le altre. Chissà come sarebbe finita, anche se quello era il Brasile di Pelé”.
Il ritorno fu amaro?
“All’aeroporto gli sportivi ci acclamarono. Capimmo quanto di buono avevamo costruito, per tutti gli italiani. Se faccio il paragone con la pioggia di pomodori dopo la sconfitta del ‘66 con la Corea… Solo il commissario tecnico Valcareggi e Mandelli, il manager al seguito della Nazionale che teorizzò la staffetta, dovettero rifugiarsi in un hangar per sfuggire alla contestazione”.
Possibile che in questo Paese si finisca per sciupare ogni cosa?
“Dopo il calcio sono stato un politico di lungo corso, sottosegretario alla Difesa con Goria, D’Alema e Amato. Ma ho sempre giocato all’attacco. Anche l’Italia dovrebbe ricordarsi di farlo”.
Ha preso il patentino di allenatore a 76 anni. Come metterebbe in campo la sua squadra?
“Mai la palla indietro. Sono riveriano e lo sarò sempre”. Fonte: Quotidiano.net