L’ospedale italiano mai nato, finito nelle mani di tale Ugo Di Martino, aveva almeno un direttore sanitario. E’ un medico venezuelano che ha studiato a lungo in Italia, lavora per il consolato e per questo era stato coinvolto subito dall’ambasciatore Placido Vigo in quell’iniziativa che doveva essere “bellissima, altruistica”. Così era entrato nel direttivo della fondazione “animato dalle migliori intenzioni”, salvo dimettersi quando le cose sono precipitate. “Dopo tre anni resta solo questa fondazione senza soldi né sede gestita da un gruppo di persone con il nome dell’Italia ma che di italiano non ha nulla. Neppure l’appoggio delle autorità italiane”, dice chiedendo l’anonimato.
Nulla sapeva dei trascorsi di Di Martino, dei verbali della Dda di Reggio Calabria che lo indicavano come braccio destro dell’ex faccendiere-latitante Aldo Micciché, legato alle ‘ndrine di Gioia Tauro. Chi ora lo sa preferisce non esporsi.
Di Ugo Di Martino ha parlato diffusamente, una decina di anni fa, Francesco Forgione, calabrese, ex presidente della Commissione parlamentare antimafia, nel suo libro “Porto Franco” ma anche in occasione delle elezioni del 2013.
Forgione si riferisce a “Ugo Di Martino, di origini siciliane, ma legato ai calabresi, già candidato del Pdl, il cui nome è stato poi inserito nella lista del Maie, l’Associazione degli italiani in Sudamerica, che sostiene appunto Mario Monti”.
Forgione ha raccontato la storia di Di Martino nel suo libro, Porto Franco, appunto. “Ricostruendo gli affari fra Marcello Dell’Utri, il latitante Aldo Micciché, inseguito da un mandato di cattura internazionale nell’ambito di un’inchiesta sugli affari del clan Piromalli in Italia e all’estero, e Ugo Di Martino – aggiunge – tutto avrei pensato, tranne che trovare quest’ultimo nella lista Monti in Sudamerica”.
Ugo Di Martino appare molto legato a Micciché, uomo a sua volta in contatto diretto con la cosca Piromalli della Piana di Gioia Tauro, una delle più potenti della mafia calabrese. Tanto che Micciché gli aveva chiesto di marcare stretto Fausto Bertinotti, allora presidente della Camera, nel corso di una sua visita ufficiale in Venezuela, per evitare che l’ex leader di Rifondazione comunista interferisse con le sue manovre politiche legate al voto degli italiani all’estero e con gli afferi del settore gas che interessavano Dell’Utri. Tramite Miccichè, il senatore del Pdl era costantemente informato degli sviluppi riportati dal candidato montiano dell’epoca.
“Sono gli stessi protagonisti delle schede bruciate nelle elezioni 2006″, conclude Forgione. “Di Martino, prima candidato di Mastella, poi di Berlusconi, adesso di Monti, evidentemente ha un pacchetto di voti da offrire sul mercato in maniera trasversale. E questo, conoscendo la gente che gli sta attorno, non è rassicurante”.
Fin qui, il passato. Adesso, il presente. Il contesto in cui è nata la vicenda dell’ospedale italiano, culminata in una sorta di “scippo” all’Ambasciata d’Italia che lo aveva promosso, è ben descritto dall’ultimo Rapporto nazionale sui servizi di cura e sugli ospedali venezuelani, diffuso il 2 marzo scorso, tra cui devono districarsi anche 150mila emigrati dall’Italia. “In termini reali – si legge – la possibilità di non trovare una medicina di base per un’emergenza è vicina al 50%. Se guardiamo alle forniture dei reparti di emergenza, è del 70% e questo valore non è cambiato dal 2019”. Il rapporto documenta un deficit del 70% nelle forniture di sala operatoria essenziali per la chirurgia, inclusi analgesici e anestetici. Quasi il 60% degli ospedali non riceve acqua corrente. E di questo che parla il medico, quando definisce l’ospedale italiano “un’occasione sprecata”.
“La parte pubblica dell’ospedale – spiega – era legata direttamente all’attività e ai fondi per l’assistenza agli indigenti in Venezuela, che sono responsabilità del Consolato italiano, a Caracas come a Maracaibo. Il progetto rispondeva alle necessità di assistenza gratuita di tutti gli italiani bisognosi e al tempo stesso poteva offrire a italiani e venezuelani non indigenti un servizio di cura a tariffe sociali, come fanno gli altri ospedali italiani nel mondo. Così la parte a pagamento avrebbe anche contribuito all’altra e l’ospedale sarebbe cresciuto nel tempo, offrendo servizi anche all’utenza venezuelana”. Fin qui l’idea, nobile, pulita. “Si è cercato a lungo una sede dove impiantare un poliambulatorio, abbiamo fatto una prima convenzione con l’Hospital San Juan de Dios, poi con la Clinica Santa Paula. Ma io sono andato via in quel periodo perché non ero d’accordo su come si stavano gestendo questa attività”.
Quando gli si fa il nome Di Martino ha un momento di incertezza. “Dice il presidente attuale dell’ospedale italiano Ugo Di Martino o quello prima che era il figlio Vincenzo Di Martino?”. Il direttivo cambiato più volte, insieme allo statuto che estromette ambasciata e consolato, cancella l’assemblea dei soci e concentra tutto il potere nelle mani di pochi è una storia familiare. “Non so molto di politica ma i Di Martino facevano parte del Comites e questo li rendeva i referenti naturali per l’operazione ospedale che doveva coinvolgere la comunità locale a partire dai suoi rappresentanti. Le quote associative del resto dovevano servire a finanziare i servizi e andavano cercate tra i connazionali. Così si è fatto con l’ospedale italiano in Argentina o in Cile. Solo che in Venezuela non ha funzionato. Ho letto il recente comunicato con cui l’Ambasciata si dissocia dall’ospedale e lamenta che sono state fatte cose illegali. Ecco, io la trovo incredibile questa cosa: sono venezuelano e ho studiato in Italia, mi sembrava una cosa bellissima migliorare le condizioni sanitarie per tutti. Ora ripeto, resta quella fondazione che fa convenzioni con le cliniche private. Ma di italiano e del progetto originario non ha nulla”.