L’omicidio Losardo e le toghe sporche della procura della Repubblica di Paola

Giannino Losardo

Sono passati quarantatre anni dalla morte di Giannino Losardo, segretario capo della procura della Repubblica di Paola e prima consigliere comunale e poi vicesindaco e assessore all’Urbanistica comunista di Cetraro.

La sera del 21 giugno 1980 ignoti (ancora oggi, purtroppo) malviventi, a bordo di una moto di grossa cilindrata lo colpiscono a morte. Losardo era a bordo della sua utilitaria e stava tornando a Fuscaldo, dove abitava con la famiglia dopo una riunione del consiglio comunale.

Losardo, ferito e prossimo alla morte, trova la forza di denunciare i suoi assassini e dice a un maresciallo dei carabinieri che era subito accorso: “Tutta Cetraro sa chi mi ha sparato”. Ma la richiesta di parlare, di dire quello che sapeva, fatta da don Giannino (così lo chiamavano tutti), non viene accolta da chi ha condiviso con lui gli ultimi istanti della sua vita. Aveva 54 anni.

La morte di Giannino Losardo ancora oggi non solo è rimasta impunita perché nessuno ne ha pagato le conseguenze ma continua a essere ammantata dal mistero e da troppe ambiguità e connivenze. L’esponente del Pci era una bandiera della lotta alla mafia e infatti con l’accusa di mandante del crimine venne arrestato il boss di Cetraro Franco Muto, meglio conosciuto come “il re del pesce”. Insieme a lui, i suoi picciotti Francesco Roveto, Antonio Pignataro, Franco Ruggiero e Leopoldo Pagano, ritenuti gli esecutori materiali dell’assassinio.

Il boss fu poi assolto da ogni accusa. Così come i suoi luogotenenti.

Giannino Losardo trascorreva le sue giornate dividendosi tra la procura della Repubblica di Paola e il consiglio comunale di Cetraro. A Paola aveva un ruolo importante: essere segretario capo di una procura significa esserne anche il primo dirigente. Di conseguenza, lavorava a stretto contatto con il procuratore e tutti i magistrati. E ostacolava e denunciava tutte le manovre dei magistrati corrotti. 

La procura della Repubblica di Paola, in sostanza, è un classico verminaio, tanto per usare un termine molto in voga quando si parla di magistrati.

Nel processo di Bari, celebrato lontano da Paola proprio per le evidenti collusioni della procura con il clan Muto, vengono coinvolti magistrati e noti politici cetraresi.

Nel 1984 vengono invitati a comparire, in particolare, il procuratore capo della Repubblica di Paola Luigi Balsano e il sostituto Luigi Belvedere, tra l’altro all’epoca sospeso dalle funzioni e finanche dallo stipendio su provvedimento del Csm.

Nei confronti di Balsano, si procede per omissione di atti d’ufficio. Nel corso delle indagini sull’assassinio di Losardo, trascurò (guarda un po’ il caso) di incriminare Franco Muto che, fortemente sospettato dell’omicidio, durante un interrogatorio oltraggiò la magistratura e tentò pure di aggredire i difensori di parte civile, l’avvocato Nadia Alecci e il senatore comunista Francesco Martorelli.

Molto più gravi le imputazioni nei confronti di Belvedere: interesse privato in atti d’ufficio e falso per aver ritardato e modificato le date di emissione di alcuni ordini di cattura a carico del figlio di Franco Muto, Luigi, che forse proprio grazie a quegli “errori” si rese latitante…

Ma l’accusa di maggior peso è quella di corruzione per i regali (“non in denaro”) che avrebbe avuto da ambienti non proprio disinteressati.

L’esito del procedimento purtroppo è noto a tutti: condanne in primo grado e poi assoluzioni negli altri due gradi di giudizio.

Il boss Franco Muto

Nonostante il clamore suscitato dall’omicidio Losardo che determinò all’epoca una mobilitazione politica generale – autentica da parte di alcuni, assolutamente strumentale da parte di altri – con la creazione di una commissione antimafia nella quale spiccava anche il nome di Francesco Martorelli, i malavitosi continuarono, tra un interrogatorio e l’altro, a fare i loro affari e a creare una rete di soggezione e terrore nella comunità.

Stiamo parlando, dunque, di una procura, quella di Paola, non solo votata a favorire l’attività mafiosa del clan Muto ma anche a spalleggiare e forse anche ad ispirare l’eliminazione di chi provava a modificare lo stato delle cose.

La verità di questo delitto è ancora contenuta nei cassetti della procura di Paola e nella memoria di qualche toga sporca che, per avidità o codardia, ha consentito l’ascesa criminale di un gruppo di malavitosi protetti da pezzi deviati dello stato, che ha posto fine ad esistenze nobili come quella di don Giannino.

Nell’ambito di quella mobilitazione politica successiva alla morte di Losardo, il ministero di Grazia e Giustizia nel 1991 dispose una ispezione alla procura di Paola che fu affidata al magistrato ispettore Francantonio Granero. Nonostante fossero passati ben undici anni dall’omicidio, la relazione del magistrato approfondì molteplici aspetti legati a quel fatto violento. Eppure, mai nessun giornalista e mai nessun media ha mai deciso di pubblicarla o di lavorarci sopra.

LE OSSERVAZIONI

Il lavoro di Granero, che si sviluppa in oltre trecento pagine, parte dalle osservazioni generali e spiega come mai si è arrivata alla decisione di “controllare” la procura di Paola.

“Sfiducia totale nella magistratura di Paola, rassegnazione e, qualche volta, timore. Convinzioni che l’inchiesta non avrebbe potuto portare ad alcun miglioramento della situazione”.

Sono questi sentimenti diffusi che hanno investito immediatamente il magistrato ispettore e che hanno accompagnato e in parte anche condizionato tutto lo svolgimento degli accertamenti.

L’incarico è stato conferito con decreto del capo dell’ispettorato in calce alla lettera del 24 luglio 1991 con la quale il ministero della Giustizia chiedeva che fosse disposta un’inchiesta intorno ai fatti evidenziati dalle interrogazioni degli onorevoli Mundo e Principe ai ministri dell’Interno e di Grazia e Giustizia, annunciata nella seduta del 20 giugno 1990.

L’AMBIENTE

“Il tribunale di Paola – si legge ancora nella relazione – è stato istituito soltanto nel 1966 ed è caratterizzato da un circondario territorialmente molto vasto, che si estende sulle coste calabre del mar del Tirreno per una lunghezza di circa 100 chilometri e che comprende una delle zone paesaggisticamente più belle e turisticamente più appetibili dell’intera Calabria”,

Il magistrato Granero, quindi, aggiungeva che il “territorio del circondario è stato oggetto di un vero e proprio saccheggio edilizio e urbanistico, avvenuto sia attraverso il proliferare di costruzioni realizzate da singoli proprietari in maniera non controllata, sia attraverso una serie di grossissime lottizzazioni, a suo tempo illegittimamente approvate, interessanti un po’ tutta la zona ma soprattutto i comuni di Scalea, San Nicola Arcella, Santa Maria del Cedro e Marcellina, dove sono stati realizzati edifici per milioni di metri cubi. Un ulteriore grave problema connesso al selvaggio sfruttamento edilizio è stato quello del controllo del litorale e del demanio marittimo, anch’esso in molti punti illegittimamente privatizzato”.

Un capitolo a parte, ieri come oggi, per il riciclaggio del denaro sporco.

“E’ opinione unanime di tutti i magistrati che proprio la particolare bellezza del territorio, soggetto all’intenso sfruttamento già ricordato, abbiano favorito l’instaurarsi, nel circondario di Paola, di una zona particolarmente adatta al riciclaggio e al reinvestimento dei proventi di attività delittuose della criminalità organizzata. Altra caratteristica è quella di rappresentare una sorta di enorme e ricco cuscinetto tra le zone di influenza della ‘ndrangheta calabrese e della contigua camorra napoletana”.