L’ultima carta di Israele, un Paese al bivio

(di Lucio Caracciolo – repubblica.it) – Israele ha deciso di abbattere il regime iraniano. E di proclamare con ciò vittoria nella guerra che dal 7 ottobre lo impegna contro i soci arabi di Teheran — Hezbollah e Hamas su tutti. Nei sogni più spericolati di Netanyahu e associati, reintegrando quel che resta dell’impero persiano in una nuova “alleanza della periferia” quale fu, in piena guerra fredda, l’intesa con lo scià e con i militari turchi contro i panarabisti di Egitto e Siria.

Non domani, forse nemmeno dopodomani, ma il crollo dello Stato dei pasdaran, di cui gli ayatollah sono componente non più egemone, è possibilità concreta. Soprattutto, Gerusalemme non ha altra scelta. La sua sarebbe infatti una vittoria della disperazione, colta combattendo sull’orlo del burrone in cui rischia di precipitare. Solo scenario strategico plausibile per dare senso alla campagna di autodistruzione su sette fronti ingaggiata trasformando il massacro del 7 ottobre in minaccia esistenziale per Israele.

Venti mesi di stragi che non hanno prodotto né possono produrre una soluzione che renda lo Stato ebraico più sicuro. Ne stanno anzi minando le fondamenta, accentuando le distanze fra le tribù israeliane e mettendo in pericolo le diaspore ebraiche nel mondo, identificate con i sionisti. Come autoridursi a Stato paria.

I massicci attacchi continuano a colpire con apparente successo i principali siti atomici iraniani e altre infrastrutture strategiche, mentre decapitano i vertici militari del nemico e liquidano scienziati e tecnologi di punta. Impressiona il grado di infiltrazione nelle élite persiane. Nessun capo iraniano può essere oggi sicuro che il suo compagno di stanza non sia al soldo del Mossad. Tutto questo si ripercuote sul morale della popolazione, già stressata e impoverita. In attesa di capire se i contrattacchi iraniani saranno efficaci.

Quanto (im)probabile è il successo di questo ambizioso progetto? In altri termini, Israele potrebbe finire di suicidarsi prima di sradicare l’Amalek — Male assoluto secondo la strumentale esegesi biblica cara a Netanyahu — incarnato dall’Iran? Lo scontro fra israeliti e amaleciti non prevede pareggio. Questo duello mortale, con lo Stato di Israele in mano ad apocalittici per fede o opportunità mentre sull’altro fronte correnti sciite messianiche sfogliano il loro calendario dei tempi ultimi, non può essere inteso su basi razionali. Non sembrano averlo colto i decisori americani, che pensano di poter ricondurre il parente israeliano a logiche utilitarie. Provvisorie.

Oggi Trump cerca di cavalcare il successo militare israeliano dopo aver tentato di non finire dentro l’ennesima guerra in Medio Oriente. Ma Netanyahu ce lo sta trascinando per i capelli. Maledizione di ogni presidente che proclami di volerne restar fuori. Gerusalemme ha bisogno di Washington, certo. Ma preferisce usare gli Usa piuttosto che esserne usata. La storia universale è ricca di casi analoghi, con l’impero che pensa di servirsi dei clienti salvo venirne manipolato. Il grande impero non si gioca la vita, i molto meno potenti soci sì. In articolo di morte per loro tutto è lecito.

Se questo è l’inizio di una guerra totale fra Israele e Iran, gli Stati Uniti non possono restarne fuori. Lo Stato ebraico resta l’unica nazione al mondo per cui gli Usa sono sempre disposti a fare la guerra. Se si sottraessero, sfregerebbero la propria identità e perderebbero ogni residua credibilità. Per la gioia di Xi Jinping e non solo.

In fondo all’animo, gran parte degli ebrei israeliani sa di abitare un provisorium. Lo Stato ebraico è miracolo che sfida ogni analisi geopolitica. Dal 1973 (Kippur) al 7 ottobre 2023 la sua strategia era di non impegnarsi mai in guerre strategiche, solo in brevi campagne di manutenzione (“falciare l’erba”). Da combattere dividendo i nemici, a cominciare dai palestinesi — di qui l’appoggio a Hamas contro i seguaci di Abu Mazen o l’attuale sostegno a una cellula gaziana dello Stato Islamico contro Hamas. Questione di demografia: un pugno di ebrei in un mare di arabi islamici. “Villa nella giungla”.

Netanyahu ha rovesciato questo principio nel suo opposto. Guerra lunga, senza obiettivi strategici definiti, impegnando tutte le risorse disponibili anche a costo di lacerare società e Forze armate israeliane. Contro un nemico bollato terrorista cui per vincere basta esistere. E riprodursi (su questo la vendetta israeliana è garanzia).

Netanyahu è al bivio: o continua a rilanciare per allargare il suo spazio vitale massacrando quanti più arabi possibile in quanto animali pericolosi — donne e bambini inclusi — fino a cacciarli dal Grande Israele. Oppure liquida il Grande Amalek e dichiara vittoria, per tornare alle periodiche campagne di manutenzione contro i palestinesi. Tutto il resto non è sconfitta, ma inizio della fine.