Mafia-stato, Di Matteo spiega la trattativa. “Borsellino disse alla moglie che il generale del Ros è punciutu”

La trattativa mafia-stato torna alla ribalta oggi, nel trentennale della strage di via D’Amelio, per capire fino a che punto i pezzi deviati dello stato hanno avuto responsabilità nelle morti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. 

Il magistrato Nino Di Matteo ha avuto modo di rilevare in particolare come cominciò la trattativa Stato-Mafia: “Totò Riina decise di uccidere subito Paolo Borsellino e di volerlo fare nel modo più eclatante. Una parte dello Stato voleva mettere fine al muro contro muro”.

Ma ecco quanto aveva dichiarato Di Matteo nella prima parte di una sua celebre intervista ad “Atlantide” di Andrea Purgatori.

“In quei 57 giorni sono accadute tante cose, tutte importanti e tutte da vedere e analizzare in maniera sistematica collegandole le une alle altre. C’è un aspetto politico-istituzionale che va evidenziato. Dopo la strage di Capaci e dopo la prima reazione che si concretizzò con un decreto legge che introdusse tra le altre regole quel regime penitenziario particilare del 41 bis, la reazione dello stato sembrava quasi essersi fermata. In fondo, abbiamo accertato che anche per quanto riguarda la possibile conversione in legge di quel decreto, si stava formando in Parlamento una maggioranza contraria… Sembrava che per i mafiosi le acque si potessero calmare… Forse il botto di Capaci era stato troppo velocemente assorbito… Poi qualcosa cambiò: anche i mafiosi avevano la sensazione che lo stato avesse in qualche modo dimenticato la strage di Capaci. Questo lo posso dire, ricordando una riunione che si tenne verso la fine di giugno del ’92 tra Riina e i suoi fedelissimi. Riina disse – scusate se utilizzo il suo linguaggio gergale – dobbiamo mettere mano a Borsellino, lo dobbiamo uccidere… Raffaele Ganci, un uomo di sua strettissima fiducia, importante capo mandamento di Palermo, reagì dicendo: “Zio Totuccio, ma veramente dobbiamo fare la guerra llo stato?”. Avanzò delle perplessità, soprattutto sul fatto che era passato troppo poco tempo dall’attentato di Capaci e quell’ulteriore attentato poteva fare scatenare definitivamente la reazione dello stato…

A queste perplessità, Riina disse: “Mi assumo io la responsabilità, questa cosa si deve fare subito, la dobbiamo fare ora e nella maniera più rapida possibile”. E ci fu una imporvvisa accelerazione di un progetto fino a quel momento generico di uccidere Borsellino, che improvvisamente, tra la fine di giugno e l’inizio di luglio, diventa un progetto da portare a termine subito e a qualsiasi costo.

Cosa stava facendo Borsellino ma soprattutto cosa aveva saputo, aveva conosciuto o aveva iniziato ad intuire? Il dato certo è che proprio in quel momento, dopo che era saltato in aria Giovanni Falcone, mentre c’era ancora il sangue caldo a terra, ci fu una parte dello stato che cercò, tramite Vito Ciancimino, di avere un’interlocuzione con Totò Riina, prospettando questa situazione: cosa volete per interrompere la catena di delitti eccellenti che era iniziata con l’omicidio dell’europarlamentare Salvo Lima? Cosa è questo muro contro muro? Una parte dello stato, poi identificata, almeno fino al momento, con i vertici dei carabinieri del Ros, propose a Vito Ciancimino di farsi internediario con Riina per trovare una soluzione e per porre fine a quel muro contro muro. Questa è un’espressione che ha utilizzato lo stesso generale Mori…

Ecco, dobbiamo ricordare quella che è stata la motivazione della sentenza del processo trattativa stato-mafia, in cui si dice che il fatto che Riina sia stato cercato da uomini dello stato lo ha indubbiamente rafforzato nel convincinento che la strategia del terriorre, del ricatto attraverso le bombe, fosse una strategia pagante per Cosa Nostra, che gli dava uin riconoscimento di controparte. E poi Riina capì che uno stato che aveva iniziato a piegare le ginocchia, dimostrando di cercarlo per trovare una soluzione a quel muro contro muro, era uno stato che si poteva mettere definitivamente in ginocchio con un altro attentato eclatante come quello contro Paolo Borsellino…

Improvvisamente diventa un’urgenza, a tutti i costi uccidere Paolo Borsellino. Poi perché Paolo Borsellino proprio in quel periodo iniziò a manifestare una ancora più evidente preoccupazuoine, quasi la certezza di dovere fare presto prima sdi essere ucciso. A cosa si riferiva Paolo Borsellino quando il 25 giugno del ’92 nel corso di un dibattito pubblico disse che diveva andare a testimoniare a Caltanissetta perché aveva da dire delle cose molto importanrti? E non fu mai ascoltato purtroppo… Perché qualcuno – certamente l’esperienza ci insegna che non furono i mafiosi che avevano messo la bomba a via D’Amelio – si preoccupò di trafugare subito dalla sua borsa l’agenda rossa? Perché evidentemente temeva che in quell’agenda Paolo Borsellino avesse consacrato quello che probabilmente aveva iniziato a capire.

E questo assume una valenza ancora più inquietante se pensiamo ad uno sfogo che Paolo Borselllino ebbe con la moglie, la signora Agnese, il 15 luglio del ’92, quattro giorni prima di saltare in aria a via D’Amelio, quando – queste sono le parole indubitabilmente certe della signora Agnese – in maniera angosciata, addirittura vomitando per il nervosismo, le parlò del generale Antonio Subranni, allora comandante del Ros dei carabinieri, dicendo una frase “Subranni è punciutu” o qualcosa del genere. “Punciutu” significa letteralmente che “è uomo d’onore”…

Rimane il dubbio del perché e che cosa avesse indotto Paolo Borsellino, che aveva avuto da sempre un ottimo rapporto col Rose dei carabinieri e con quell’ufficiale, ad esprimersi, quattro giorni prima della sua morte, in questo modo così duro. In quel momento – questo è accertato – il Ros dei carabinieri aveva già contattato e stava già parlando con Vito Ciancimino in quello che poi la sentenza di primo grado considera l’inizio di una vera e propria trattativa. Mentre Paolo Borsellino angosciato andava incontro alla sua morte, c’era una parte dello stato che chiedeva a Riina “cosa vuoi per interrompere questa cateba di attentati”. Questo è un dato di fatto che, a prescindere dalla responsabilità penale dei singoli ufficiali del Ros che sono stati imputati e condannati in primo grado, che il processo trattativa stato-mafia ha consacrato in maniera certa ed assolutamente inequivocabile e sul quale tutti dovremmo riflettere, considerato che quell’approccio rafforzò il convincimento di Riina ad andare avanti nel ricatto allo stato a forza di bombe e di attentati.

Borsellino aveva saputo di questo inizio di trattativa e le tracce di questa possibilità sono tante e sono concrete. Dobbiamo anche riconoscere che già a fine giugno, dopo aver detto quelle parole nel dibattito pubblico, Paolo Borsellino rilasciò un’intervista al giornalista Peppe D’Avanzo nel corso della quale quando ribadì di voler andare a testimoniare a Caltanissetta, il giornalista gli chiese: “Ma lei andrà ad operare una ricostruzione, da esperto di mafia, di quelle che possono essere state le cause e quelli che possono essere stati gli autori della strage di Capaci?”, Borsellino rispose in maniera secca, nel suo stile, che oggi assume quasi un significato tragico ed agghiacciante. “Io sono un magistrato: io se vado a Caltanissetta, quando potrò andare a Caltanissetta, non andrò a riferire ricostruzioni ma fatti precisi e circostanziati che possono essere utili alle indagini”. Anche questo è un piccolo indizio di qualcosa che Borsellino aveva saputo e conosciuto, così come lo sfogo con la moglie del 15 luglio, e le occasioni di incontro con gli stessi ufficiali dei carabinieri del Ros”.