Stiamo pubblicando ormai da diversi giorni alcuni stralci del libro-inchiesta di Francesco Forgione “Porto Franco: politici, manager e spioni nella Repubblica della ‘ndrangheta”. Dopo avere esaminato a fondo i rapporti tra il clan Piromalli e Marcello Dell’Utri per conto di Silvio Berlusconi, l’autore ci spiega la trasformazione della ‘ndrangheta e i suoi mille tentacoli che coinvolgono anche la magistratura e tutto il sistema che gira intorno alla Giustizia a Reggio Calabria. Roba che scotta e che si aggancia in maniera disarmante al caos delle toghe sporche di oggi.
COME LA P2 HA RIFONDATO LA ‘NDRANGHETA
Nello stesso anno in cui viene istituita la loggia di Licio Gelli, la ‘ndrangheta si dota di una struttura segreta, la Santa, che consente agli uomini delle cosche di avere rapporti diretti con la massoneria deviata. Attraverso la Santa la mafia calabrese fa un salto di qualità che l’ha portata a diventare oggi l’organizzazione criminale più potente d’Italia e d’Europa.
di Francesco Forgione
tratto dal libro “Porto franco”
Che niente sarebbe rimasto come prima, i mammasantissima della ‘ndrangheta l’avevano capito. E loro non erano gente che poteva restare ferma. Si annunciava un periodo di grande trasformazione, economica, negli equilibri politici. e pure per i signori dell’Onorata società . Loro l’avevano fiutato e ne avevano discusso a Montalto, sull’Aspromonte, la montagna più alta sopra San Luca, da dove, rivolto verso la Sicilia, un Cristo bianco come quello brasiliano di Rio abbraccia Ionio e Tirreno, Stromboli ed Etna.
L’ultima riunione del Crimine l’avevano tenuta pochi mesi prima dello scoppio della rivolta del 1970: non potevano più andare avanti con i locali separati gli uni dagli altri, ognuno per i fatti suoi, senza una guida e una direzione unitaria. L’autorità riconosciuta, il capo crimine, quello ce l’avevano, ma non bastava. Poteva andare bene finché facevano la guardiania. il cavallo di ritorno, le estorsioni e pure qualche sequestro di persona.
Ora però c’era il nuovo bisinis delle sigarette e della droga e il giro diventava sempre più grosso. Ma soprattutto c’erano i grandi appalti del pacchetto sviluppo, e con quelli piovevano i primi soldi dello Stato come manna dal cielo. L’autostrada Salerno-Reggio Calabria era stata una miniera e poteva continuare a esserlo. Non avevano fatto in tempo a finirla e a tagliare il nastro dell’ultimo tratto Gioia Tauro-Reggio, che già gli avevano fatto capire che era meglio ricominciare subito, perché si vedeva a prima vista che era già vecchia e, senza perdere tempo, andava ammodernata. Quelli dell’Anas e del governo, mezza parola, si erano trovati tutti d’accordo: i lavori dell’autostrada erano ricominciati appena finiti, nel 1972, ed erano diventati lavori in corso per l’eternità .
Avevano pure raddoppiato la ferrovia perché per arrivare a Reggio c’era un solo binario e soldi ce n’erano voluti assai: quella non è una ferrovia, è una linea aerea, sospesa tra gallerie e ponti a strapiombo sul mare. Ormai l’esperienza ce l’avevano: come facevano a trattare per tutti se ognuno andava per i fatti suoi?
Peppe Zappia, il vecchio capomafia di San Martino di Taurianova, che presiedeva la riunione dei capi era stato chiaro: “Qui non c’è ‘ndrangheta di Mico Tripodo, non c’è ‘ndrangheta di ‘Ntoni Macrì, non c’è ‘ndrangheta di Peppe Nirta! Si deve essere tutti uniti, chi vuole stare sta e chi no se ne va”.
Il capobastone, che nel triumvirato rappresentava la Piana di Gioia Tauro, aveva citato i due capi della Città e della zona Ionica. Cioé l’intera Provincia, come si sarebbe chiamata la struttura di direzione di tutta l’organizzazione. La commissione direbbero quelli della Sicilia, che la parola cupola se la sono inventata i giornalisti. Certo, allora c’era ancora chi voleva discutere del traffico di droga, perché non tutti erano d’accordo, e di sequestri di persona, se era giusto farli oppure no. C’era addirittura chi diceva che bisognava rispettare poliziotti e carabinieri e vivere tranquilli: a ciascuno il suo. I vecchi, ormai si vedeva, continuavano a ragionare con la testa dell’Onorata società e non capivano che la ‘ndrangheta stava diventando già un’altra cosa e per questo, fuori, era cercata, temuta e rispettata.
Se no, perché il principe Valerio Borghese era andato a fare un comizio a Reggio proprio il 25 ottobre del 1969, il giorno prima del summit di Montalto? Aveva chiesto al marchese Fefé Zerbi, che era fascista e massone come lui ma anche punciutu e affiliato alle ‘ndrine della Piana, di convincere i capimafia di Reggio a partecipare al suo colpo di Stato. Il principe l’aveva fatto pure con i siciliani di Cosa nostra e dopo più di vent’anni lo avevano raccontato alla Commissione antimafia boss di alto rango come Pippo Calderone, Leonardo Messina e don Masino Buscetta, quando, infami, si erano fatti pentiti. E pure lì, in Sicilia, un giornalista di razza, che era stato fascista ma da anni scriveva per il giornale “L’Ora” di Palermo che era vicino ai comunisti, aveva scoperto che Riina, Provenzano, Di Carlo, si erano alleati col principe Borghese.
Si chiamava Mauro De Mauro: il 16 settembre 1970, esattamente dieci giorni prima della morte dei cinque anarchici, sale in macchina con una persona, forse un amico o un informatore che conosce bene, e da quel momento scompare. Diventerà un altro dei misteri d’Italia ma, a differenza delle cose calabresi, di De Mauro si parlerà e sulla sua morte non si smetterà mai di indagare. I cinque anarchici, invece, non li ricorderà più nessuno e la strage di Gioia non comparirà mai nell’elenco delle stragi italiane.
Eppure Reggio era più importante della Sicilia, il principe “nero” lo sapeva. Qui una parte dei boss era già incappucciata nella massoneria e altri, con la nascita della Santa, ci sarebbero arrivati. Il vento della rivolta, che già soffiava forte, vento nero era, e poteva arrivare a diffondersi in tutto il Sud. Non come il vento del Nord che, tra operai e studenti, era tutta cosa di sindacati, cinesi e comunisti. Il disegno del principe, che al Nord poteva realizzarsi solo con le bombe fatte scoppiare da terroristi coperti dai Servizi, a Reggio aveva le gambe di un intero popolo. E poi nella città dello Stretto crescevano e scalpitavano nuovi capimafia che col principe e col marchese Fefé erano già amici e avrebbero avuto sicuramente un futuro. Non come quelli della Ionica, antichi, dove nelle ‘ndrine c’era ancora gente con la tessera del Partito comunista in tasca.
La forza di questi rapporti si capirà meglio dopo alcuni anni: nel 1978, durante il processo per la strage di Piazza Fontana che si teneva a Catanzaro, scappa uno degli imputati principali, Franco Freda. Quando un anno dopo viene ritrovato in Costarica, si scopre che a organizzare la latitanza e la fuga prima in Francia e poi in Centro America del terrorista nero, erano stati Paolo Romeo, Giorgio De Stefano e gli uomini della sua cosca. Insomma, i tempi stavano cambiando e in mezzo non si poteva stare. Con tutto quello che si muoveva, anche i boss dovevano fare la loro parte.
Dopo la rivolta e con il “pacchetto Colombo” in arrivo, altro che Onorata società , si dovevano fare le cose in grande e chi non era al passo con i tempi non lo avrebbe aspettato nessuno. E poi, l’avevano deciso pure quelli del governo che il futuro della Regione si giocava tra Reggio e la Piana. Loro dovevano essere della partita.
A Reggio sono i nuovi capi, tutti giovani, che cominciano a parlare direttamente con i siciliani, a fare carichi di sigarette con i napoletani, a prendere propri contatti con i grandi trafficanti internazionali di droga. Con la massoneria hanno trovato le chiavi per aprire le porte chiuse e con quelli dei Servizi segreti ci vanno pure al bar, che dai giorni dei “Boia chi molla” in poi, Reggio c’ha più spioni che spazzini.
I nuovi boss cresciuti sotto le ali protettive del vecchio Mico Tripodo, si chiamano De Stefano, Condello, Imerti, Tegano, Libri, Labate, Serraino. I cognomi sono gli stessi ancora oggi, perché, dopo 40 anni, alcuni sono morti e altri in galera, ma altri ancora, troppi, l’hanno fatta franca e qualche aiuto gliel’hanno dato pure quelli del Tribunale che invece li avrebbero dovuti colpire. A quei tempi però stavano ancora crescendo e sarebbero diventati adulti a colpi di piombo nelle due guerre di mafia che a Reggio, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Novanta, hanno fatto migliaia di morti. Nemmeno nell’assedio di Beirut ce n’erano stati tanti.
Nella Piana, invece, i Piromalli erano già i Piromalli, loro rappresentavano il vecchio e il nuovo. Con la massoneria erano ‘mbiscati da prima degli altri, siciliani e napoletani se li coccolavano da tempo, e da sempre erano abituati a guardare avanti. Il “pacchetto Colombo” era appena confezionato e loro si erano già preparati alla costruzione della fabbrica e del porto. Però doveva cambiare tutta la Piana. Paese per paese, ‘ndrina per ‘ndrina, locale per locale: gli alleati dovevano essere forti e fedeli e ci avrebbero pensato loro a rappresentare tutti, perché quello che stava arrivando bastava e avanzava per tutti quanti. I Piromalli facevano sul serio. Volevano dare l’esempio di quale futuro avessero davanti boss e picciotti se diventavano moderni e si mettevano in sintonia con i tempi. E bisognava pure sbrigarsi perché i lavori, quattro e quattr’otto, dovevano cominciare.
Intanto, chi glielo aveva detto alle imprese che devono realizzare il Centro siderurgico che bastava il vecchio 3% forfettario su tutti i lavori per andare avanti tranquilli? Ancora non l’avevano capito quelli della Cogitau (Consorzio Imprese Gioia Tauro) e quelli della Timperio Spa di Roma che la musica era cambiata? Nel 1974 a Gioia c’erano stati 154 attentati, quasi uno ogni due giorni. Lo dovevano capire che se volevano stare in pace dovevano incontrarsi e scendere a patti. E loro, chiuso l’accordo, come era realmente avvenuto l’anno dopo, non avrebbero fatto scoppiare nemmeno le bombette di Natale, che qui cominciano a sparare dal giorno dell’Immacolata.
Il discorso era chiaro, il 3% erano briciole per i cani. E ci mancava pure. Per un’opera come quella, con 1300 miliardi stanziati solo per il Centro siderurgico e 7500 posti di lavoro previsti, tutte le famiglie della Piana si dovevano accontentare solo di ‘na specie di pizzo? Loro gli imprenditori volevano fare e le imprese che avevano vinto gli appalti dovevano sapere che potevano andare avanti solo se facevano i subappalti. Questa “offerta” se l’erano parlata in un summit che avevano tenuto proprio a Gioia Tauro Antonio Macrì, ‘zzi ‘Ntoni, il capo delle cosche della Ionica, Mico Tripodo e i fratelli Giorgio e Paolo De Stefano, per Reggio Calabria, e don Mommo e don Peppino Piromalli per tutta la Piana. Il segnale era chiaro: Mico Tripodo, senza i De Stefano, quelli moderni, non rappresentava più Reggio Calabria. Ormai lo scontro era tra vecchio e nuovo, per questo con Tripodo si era trovato d’accordo solo il vecchio capomafia della Locride.