Marcello Manna tra presunte “verità” e sentenze “comprate”

La verità a Cosenza non ha bisogno di sentenze. La si conosce già.
Non ha bisogno del verdetto di un giudice: circola libera da anni, di bocca in bocca, di piazza in piazza, di casa in casa. La cosiddetta giustizia dei tribunali ha i suoi tempi, i suoi limiti, i suoi cavilli. Ha la prescrizione, il silenzio, la rimozione. La verità, quella vera e storica, no. Non ha bisogno di timbri. A Cosenza, che è più un paesotto con la presunzione da città, la gente sa. Conosce la verità. Sa chi comanda davvero. Sa chi ha fatto carriera coi voti dei clan. Sa chi ha costruito imperi economici in odor di mafia. Sa chi siede nei salotti buoni dopo aver servito padroni impresentabili. Sa chi è il giudice che aggiusta, il giornalista che tace, il politico che incassa e ringrazia. Lo sanno tutti, anche se quasi nessuno lo dice. Perché finché non c’è una sentenza — che in Italia è diventata l’alibi perfetto — il mondo resta in attesa. Come se le sentenze fossero rivelazioni divine, e non atti umani. Pilotabili. Manipolabili. Addomesticabili.

E chi meglio di Marcello Manna può spiegarlo? Lui che le sentenze le comprava. Lui che pagava Marco Petrini, giudice e uomo d’onore al contrario, per far uscire liberi assassini e mafiosi, per correggere procedimenti, per negoziare la giustizia al ribasso. E a proposito di sentenze: ce n’è una, definitiva e in secondo grado, che lo condanna proprio per corruzione giudiziaria. E allora, diciamolo: che valore può avere la “verità processuale” in una città dove il sistema è impastato di connivenze? Come funziona il porto delle nebbie, è cosa che tutti i cosentini conoscono.

La giustizia, a queste latitudini, non è mai stata sinonimo di verità. Non lo è a Cosenza, e nemmeno altrove. La giustizia dei tribunali è troppo spesso una parodia burocratica: fragile, incompleta, selettiva. E poi, per marpioni, pezzotti, corrotti, collusi, mafiosi, massoni e compagnia bella, i modi per sfuggire alla giustizia sono infiniti: prescrizioni, depistaggi, archiviazioni, assoluzioni per “insufficienza di prove”, promozioni strategiche, trasferimenti mirati, bustarelle, regalie e privilegi. Ma alla verità storica, non si sfugge. Quella resta. Galleggia nei racconti, si trasmette nei sussurri, si imprime nella memoria collettiva. E soprattutto, non ha bisogno di prove per esistere.
Le basta una cosa sola: che tutti la conoscano. E i cosentini, i rendesi, conoscono bene la verità storica su Marcello Manna.

Ci sono personaggi che, per tutto ciò che abbiamo detto, non avranno mai una condanna.
Ma resteranno impresentabili per sempre. Non per decisione di un tribunale, ma per verità storica. Perché i fatti, quelli veri, non scompaiono con un’assoluzione. Perché certi affari puzzano anche senza un rinvio a giudizio. Perché le ricchezze improvvise, le carriere lampo, le connivenze sistemiche non si spiegano con il talento, ma con la rete di protezione che la Calabria conosce fin troppo bene. E allora smettiamola con la favoletta della “verità processuale”. Non è una sentenza a dire chi è un galantuomo. Non è un’assoluzione a lavare l’anima. La bustarella al giudice resta bustarella, anche senza il timbro del GIP.
L’accordo con il boss resta un patto, anche senza l’intercettazione. Le campagne elettorali finanziate dai compari restano marce, anche se il fascicolo è stato chiuso. La storia di una città non si scrive con le sentenze. Si scrive con la verità. Quella che tutti sanno, e che pochi hanno il coraggio di dire. E, come direbbe Faber: “anche se voi vi credete assolti, siete per sempre coinvolti”.