di Giuseppe Pipitone con la collaborazione di Marco Bova
Fonte: Il Fatto Quotidiano, 13 dicembre 2021
Non lo vede nessuno. In mezzo alla folla che da via della Stamperia scorre in direzione della Fontana di Trevi nessuno può accorgersi di quel giovane magro e distinto. Indossa una camicia su misura, i pantaloni Versace, al collo ha un foulard di marca: un turista come gli altri, in uno dei luoghi più frequentati del mondo. Quello, però, non è un turista e non è lì per una gita. È quasi all’incrocio con via del Lavatore quando dà un’occhiata all’orologio che porta al polso, un Rolex Daytona d’oro e d’acciaio: l’appuntamento era per le 15, ma lui è un po’ in anticipo. Si guarda intorno, osserva le vetrine degli esclusivi negozi di abbigliamento, quindi si ferma davanti alla fontana più famosa d’Italia. Febbraio sta finendo ed è pure spuntato il sole: l’uomo indossa un paio di occhiali scuri, i Rayban a goccia che tanto andavano di moda in quel 1992. Ha voglia di fumare una sigaretta: dalla tasca estrae un pacchetto di Merit, ne prende una e l’accende. È a quel punto che si sente chiamare: “Paolo, Paolo”. Quello, però, non è il suo vero nome. Ecco perché Matteo Messina Denaro impiega un paio di secondi prima di voltarsi. Quando lo fa, Giuseppe Graviano gli sta sorridendo.
C’è un rapporto profondo che lo unisce a Graviano, quasi quanto gli antichi legami familiari che lo collegano ai Cuntrera e Caruana, i potentissimi narcotrafficanti che avevano la loro base in Venezuela. E poi c’è il ruolo fondamentale giocato nelle stragi, poco prima di cominciare una lunga latitanza. A ogni blitz, a ogni operazione, a ogni sequestro, i giornali scrivono che il cerchio intorno all’ultimo latitante di Cosa Nostra si stringe sempre di più. Ma il centro di quel cerchio rimane sempre, inesorabilmente, vuoto.Nessuno ancora lo sa, ma all’epoca di quell’incontro alla Fontana di Trevi è appena cominciata la stagione stragista di Cosa Nostra. Di lì a poco cadranno uno dopo l’altro nemici storici della mafia come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ma anche amici che avevano tradito come Salvo Lima, il viceré di Giulio Andreotti in Sicilia. Ma ancora è presto. In quel tardo inverno del 1992 il Paese è più interessato alle notizie di politica: da lì a poche settimane si tornerà a votare, e per la prima volta sulla scheda non ci sarà il simbolo del Partito comunista, che si è trasformato nel Pds. Negli stessi giorni a Milano viene arrestato Mario Chiesa, il “mariuolo” piazzato dai socialisti a dirigere il Pio Albergo Trivulzio. Sembra un caso isolato e invece sta scoppiando Tangentopoli.Qualcosa si muove pure in Sicilia. Qualcosa di terribile.Poche settimane prima, il 30 gennaio, la Corte di Cassazione ha messo il bollo sugli ergastoli del maxiprocesso: per i mafiosi condannati vuol dire il carcere a vita. Non era mai successo: dopo mezzo secolo di efficienza, la macchina dell’impunità mafiosa si è inceppata. E il capo dei capi è imbufalito.Tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992 Totò Riina riunisce tutti i suoi generali e ordina: “Dobbiamo toglierci i sassolini dalle scarpe”. Vuol dire che devono morire i magistrati, ma pure i politici incapaci di aggiustare le sentenze. Lo Stato ha deciso di fare guerra alla mafia creando la Superprocura? E Riina risponde creando la “Supercosa”: sono uomini scelti, fedeli soltanto a lui, incaricati di missioni delicate e segretissime. È per questo motivo che quel giorno Messina Denaro incontra Graviano alla Fontana di Trevi. È il prologo delle stragi, ed è lì che bisogna tornare per cercare di capire chi è davvero Messina Denaro. Chi è stato, che cosa è diventato, come è riuscito a diventare un fantasma. Il fantasma della Repubblica. Anzi, per essere precisi, della Seconda Repubblica.
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