E’ passato un lungo anno dal naufragio di Steccato di Cutro e la comunità crotonese sta ricordando chi ha perso la vita in mare. Dalle 4 del mattino è in corso una veglia. La Rete 26 febbraio ha riunito la parte sana della società civile, che si è ritrovata e si è stretta attorno ai familiari dei naufraghi e ai sopravvissuti sulla spiaggia di Steccato di Cutro, nella fiaccolata promossa dalla redazione di “Crotone News”.
A seguire, alle 9 del mattino, al Museo di Pitagora, saranno i superstiti ed i familiari delle vittime del naufragio a chiudere la tre giorni con una conferenza stampa nella quale racconteranno le loro storie e le loro denunce.
“Tutto questo programma – scrive la Rete 26 febbraio – gli eventi, che insieme ai familiari e ai superstiti sono stati immaginati e realizzati sono ispirati e guidati da richieste e rivendicazioni chiare: corridoi umanitari; politiche migratorie efficienti e concrete, rispettose dei diritti umani universali, della dignità di tutti, in particolare di chi fugge da conflitti, catastrofi ambientali e umanitarie, contesti di gravi crisi sociali ed economiche, persecuzioni. Chiediamo politiche di accoglienza strutturate e non emergenziali; la cessazione di ogni forma di criminalizzazione dei migranti e della solidarietà e lo stop all’industria delle armi, che alimenta e spesso crea le condizioni alla base di guerre e conflitti”.
Di seguito, la riflessione di Bruno Palermo, tra gli organizzatori della veglia.
Sono ore difficili, dure da digerire e complicate da comprendere, nonostante sia passato un anno da quel 26 febbraio 2023, quando sulla spiaggia di Steccato di Cutro sono arrivati i cadaveri di bambini, donne e uomini di esseri umani abbandonati al loro destino da chi avrebbe dovuto salvarli e soccorrerli. Noi cronisti avremmo dovuto raccontare uno sbarco come tanti avvenuti sulle coste calabresi, uno dai tanti ai quali ho assistito del 1999 ad oggi. Mai avrei e avremmo creduto di dover raccontare una strage di piccoli corpicini, di donne combattenti, di uomini forti e di ragazzi pieni di sogni di libertà e di vita. Nel cimitero di Crotone da un anno è seppellito Alì, diventato il simbolo di questa strage. Oggi sappiamo che il suo vero nome è Mohammad Sina Hoseyni, aveva solo tre anni e viaggiava con la mamma e la sorella, anche loro hanno perso la vita nel naufragio della “Summer Love”, nella strage di Steccato di Cutro.
Il suo corpicino è stato riconosciuto dal papà in videochiamata con gli agenti della Polizia Scientifica della Questura di Crotone. Ed è stato sempre lui a riconoscere i corpi senza vita della moglie e della figlia che viaggiavano verso una vita nuova, verso una vita libera, ma qualcuno ha deciso di regalare loro la morte, anziché la vita perché “è da irresponsabili mettere i propri figli sulla barca con questo tempo”, tuonò il 26 febbraio dello scorso anno il ministro dell’Interno. Una frase ed un pensiero non solo disumano, ma evidentemente privo di qualsiasi conoscenza delle condizioni di vita di questi fratelli che sono nati dalla parte più sfortunata del Mediterraneo, mentre noi con le nostre opulenze abbiamo avuto in sorte la parte più fortunata del Mediterraneo.
Non conviene andare oltre in queste ore di rinnovato dolore, di occhi pieni di lacrime che non riescono ad uscire e di rabbia per una ingiustizia consumata sui corpi di 94 vittime e un numero imprecisato di dispersi in mare. Mentre i dispersi in terra, i sopravvissuti, proprio ieri hanno chiesto ai Governi italiano e tedesco di essere aiutati e supportati anche psicologicamente, oltre che materialmente.
Le domande da porsi sono tante, ma su tutte restano quelle sui mancati soccorsi: chi doveva intervenire? Perché nessuno li ha trovati in mare e aiutati? Perché il ministro dell’Interno ha parlato per settimane di “sbarco spontaneo”, quando una perizia del Tribunale di Crotone dice che la Summer Love era seguita da un radar di terra da almeno un’ora e mezza prima del naufragio? Come sono morti questi nostri fratelli e di chi sono le responsabilità? Nella foto a corredo di questo editoriale troverete la foto del piccolo Mohammad Sina Hoseyni, il motivo per cui la pubblichiamo, e prima o poi pubblicheremo quelle di tutte le vittime, è per metterci davanti ai nostri occhi i volti e il volto di chi non abbiamo soccorso e abbiamo lasciato morire.
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