La morte di Giuseppe Nirta, il boss di San Luca, chiude un’epoca e consente di ricostruire come questo piccolo centro è diventato fondamentale per l’affermazione della ‘ndrangheta. Nella prima parte è stato ricostruito il rapporto tra San Luca e la ‘ndrangheta (https://www.iacchite.blog/ndrangheta-di-un-paese-mondo-mamma-san-luca/). Nella seconda parte si parla di guerra e faide.
San Luca in guerra e le faide
Fonte: UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO
FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE,
ECONOMICHE E SOCIALI
CORSO DI LAUREA TRIENNALE IN
SCIENZE POLITICHE
‘NDRANGHETA DI UN PAESE-MONDO
IL CASO DI SAN LUCA
Elaborato finale di: Giovanni Balducci
Relatore: Prof. Fernando Dalla Chiesa
Come è accaduto anche nella storia di Cosa Nostra siciliana, anche la ‘Ndrangheta ha vissuto guerre sanguinose che hanno fatto da spartiacque tra vecchia e nuova mafia.
La prima guerra di ‘ndrangheta risale al 1974 e portò ad una trasformazione epocale nella struttura e nel sistema ‘ndranghetisti. La guerra vide figure storiche come Domenico “Mico” Tripodo e Antonio “Ntoni” Macrì contrapporsi al gruppo formato dai De Stefano, i Piromalli, i Tegano, i Mazzaferro e i Mammoliti. Prima dello scoppio del conflitto, le attività che reggevano la ‘ndrangheta rientravano in una dimensione mafiosa arcaica, con abigeato, caporalato, estorsione e in primis, in quegli anni, contrabbando di sigarette. Le cause della guerra sono da ricercarsi nella posizione dei Macrì-Tripodo che si opponevano alla pratica dei sequestri di persona, ritenuta sconveniente, e alle ambizioni della ‘ndrina dei De Stefano; pure la possibilità di entrare nel traffico di stupefacenti e la costituzione delle Regioni, con un nuovo esorbitante flusso di denaro pubblico per gli appalti per l’Autostrada del Sole, del V Centro Siderurgico e del Porto di Gioia Tauro, erano tra i motivi di attrito fra le cosche e soprattutto fra la vecchia guardia mafiosa e le nuove leve, tra cui proprio gli Strangio di San Luca.

La morte di Giovanni De Stefano, nel novembre 1974, fu l’evento scatenante, il casus belli che portò in seguito all’assassinio nel 1975 di Antonio Macrì, capobastone di Siderno e boss della Siderno Group canadese, e un anno dopo di Mico Tripodo, su ordine di Raffaele Cutolo, grande alleato dei De Stefano fino agli anni ‘80.
La guerra terminò nel 1977 con la morte di Giorgio De Stefano, che aspirava a diventare capo supremo dell’organizzazione, e il passaggio di Paolo De Stefano alla guida della cosca. Nonostante questo, furono i Tripodo e i Macrì a uscirne sconfitti e con loro la vecchia generazione di ‘ndrangheta, mentre accrescevano il loro potere i Commisso in Canada e i De Stefano a Reggio Calabria.
Con la fine della guerra e la supremazia dei De Stefano, si avviò una nuova importante fase per la criminalità calabrese che si affacciò prepotentemente sul panorama politico e vide anche il consolidamento della Santa, il vertice ‘ndranghetista legato alla massoneria.
Dopo una pace durata quasi un decennio, la Calabria fu scossa da una seconda guerra di ‘ndrangheta16, scoppiata nell’ottobre del 1985. Furono sempre gli interessi economici, il denaro pubblico e nuove prospettive di arricchimento a portare al conflitto tra il clan degli Imerti-Condello e quello dei De Stefano e dei Tegano.
Ancora una volta fu l’ambizione espansionistica dei De Stefano a cancellare una pace duratura. I De Stefano, forti del loro dominio su Reggio Calabria, dopo aver scavalcato i Tripodo, e delle loro alleanze criminali sia dentro che fuori dall’organizzazione calabrese, tentarono di espandersi sui territori di Villa San Giovanni, territorio degli Imerti. A ciò si aggiungeva il timore dovuto al matrimonio tra Antonio Imerti e Giuseppina Condello che avrebbe portato all’alleanza e al rafforzamento del clan Imertie quello di Pasquale Condello “Il Supremo”.
Alla luce di questa situazione così tesa, il capobastone Paolo De Stefano ordinò l’omicidio del boss Antonio Imerti, che però fallì.
Ne seguì una lunghissima scia di sangue che coinvolse anche il boss De Stefano, ucciso qualche giorno dopo, e stravolse la “normalità” ‘ndranghetista, addirittura minorenni furono incaricati per gli omicidi.
La guerra di Reggio Calabria terminò solo nel 1991. Aveva portato alla morte di più di settecento persone e a nuove e consistenti trasformazioni nell’organizzazione della ‘ndrangheta. Il processo di pacificazione fu favorito sia internamente, da Antonio Pelle “il Vecchio” (N 1919) e Antonio Mammoliti, che all’esterno dalla mediazione di Cosa Nostra che, in cambio, chiese l’uccisione del giudice Antonio Scopelliti, Pubblica Accusa nel maxiprocesso contro la mafia siciliana.
L’esito della pace fu la divisione del territorio reggino nei tre mandamenti di Reggio città o reggina, della Locride o jonica e della Piana di Gioia Tauro o tirrenica, nonché la costituzione di una sorta di cupola, detta provincia, dissimile da quella siciliana per l’assenza di un “capo dei capi” assoluto.
Nacque così quella che venne impropriamente chiamata Cosa Nuova, un organo verticistico composto da diciannove tra i più importanti esponenti delle ‘ndrine calabresi e che di fatto permise alla ‘ndrangheta una forza e una solidità ancora maggiori, portandola ad essere tuttora l’organizzazione criminale più forte e radicata al mondo.
La caratura criminale e il ruolo centrale del paese di San Luca non potevano esentarla dai conflitti interni. Per tutta la sua storia mafiosa, le sue famiglie si sono scontrate per il dominio di territori spesso distanti migliaia di chilometri dall’Aspromonte, oltre che per il controllo di affari particolarmente lucrosi, leciti e illeciti.
Le faide non sono come le guerre, che vedono scontrarsi ‘ndrine originarie di tutti i grandi paesi mafiosi della Calabria, spesso supportate anche da organizzazioni criminali extraregionali. Le faide nascono e finisco all’interno di un paese e tra le sole ‘ndrine locali, è rara la partecipazione di ‘ndrine esterne che rimane comunque sempre molto blanda o indiretta, come anche raro è lo spargimento di sangue al di fuori dei confini cittadini.
La faida più sanguinosa, che è stata anche la prima a non rimanere confinata tra i casermoni sanluchesi, è stata quella che dal 1991 al 2007 ha seminato morti dalla Calabria alla Germania. Una guerra durata vent’anni scoppiata durante il Carnevale del 1991 per un banale scherzo, un lancio di uova tra ragazzi di alcune delle tante cosche che tengono in mano San Luca, i Nirta-Strangio e i Pelle-Vottari-Romeo. Ne scaturì una rissa e qualche giorno dopo in un agguato persero la vita i giovani Francesco Strangio e Domenico Nirta, uccisi da Antonio Vottari. 
Da allora gli omicidi per vendetta non si sono più riusciti a contare: tra gli altri morirono due capibastone dei Pelle, a seguire un esponente dei Favasuli e uno dei Giorgi. Poi per qualche tempo sembrò fosse tornata la pace.
Almeno fino al luglio 2006 quando a Francesco Pelle, detto “Ciccio Pakistan” o u pachistanu, venne richiesto di saldare i conti con la faida di cui lui era uno dei più accesi fautori.
Il giorno in cui il suo neonato primogenito veniva portato a casa dall’ospedale, ad Africo Nuovo, il boss venne raggiunto da diversi colpi di fucile che lo costrinsero irrimediabilmente sulla sedia a rotelle, isolato dalla sua stessa famiglia e ormai condannato dal tribunale della ‘ndrangheta.
La tregua durò pochissimo e la vendetta del boss Pelle, maturata con le sue sofferenze nell’ospedale della Locride, arrivò nel dicembre dello stesso anno con l’ennesimo giorno di festa da “rovinare” agli avversari. Vana la richiesta, da parte del padre Antonio e del cognato Franco Vottari, di “non fare pagliacciate”, di stare a bada,
Ciccio Pakistan organizzò l’agguato all’uomo di punta dei Nirta-Strangio, Giovanni Luca Nirta. Il commando spregiudicato, con a capo il fratello Giuseppe Pelle, “Peppareglio”, tentò di portare a termine il compito ma l’unica vittima dell’assalto risultò essere la moglie del boss avversario Maria Strangio, nonché sorella dell’altro boss Sebastiano Strangio (NS 1970). La situazione sfuggì di mano perché, oltre alla donna, rimase ferito il piccolo figlio del boss, evento intollerabile per le sacre leggi della consorteria mafiosa calabrese: le donne e i bambini non si toccano.
San Luca piomba nel terrore, una simile brutalità rischiava di far saltare tutte le regole e i Pelle-Vottari lo sapevano, tanto che ritirarono tutti i loro figli dalla scuole, rinchiudendoli al sicuro delle case.
Quando a San Luca si parla di Nirta, di Strangio e di Pelle non ci si riferisce a uniche famiglie, sono tanti i nomi e tante le cosche che li detengono.
Una precisazione non scontata alla luce del comportamento di un altro Pelle, il boss Giuseppe Pelle dei “Gambazza”, che, prima di fronte all’illustre suocero platiota
Francesco Barbaro e poi davanti a un importante esponente dei Nirta-Strangio, ha più volte ribadito la sua estraneità alle vicende di faida:
“Noi non ne vogliamo sapere niente, non per debolezza. Non vogliamo sapere niente perché hanno fatto una cosa storta. Fate quello che volete, basta che non entrate in contrasto con noi”.
Tale dissociazione era però già chiara alla cosca in guerra che rassicurò il boss Gambazza con queste parole:
“No, a voi non pensiamo mai di fare una cosa di queste perché sappiamo che voi siete cristiani onesti che non volevate queste cose, altrimenti non venivate” .
E la “cosa storta” era tale anche all’interno della cosca dei Pelle-Vottari perché anche la fidanzata di Sebastiano Vottari, parte del commando di Natale, Maria Gabriella Giorgi, intercettata in una conversazione con una amica universitaria nel marzo 2007, parla in questi termini.
“Una cosa peggiore non la potevano fare… nessuno era d’accordo… hanno fatto una gran cazzata… gli sarà partita qualche molla storta quel giorno”.
Non è casuale il dialogo tra Giuseppe “Gambazza” e il cognato Barbaro, non è casuale perché la faida stava assumendo proporzioni tali da creare disturbo a tutta la costa jonica e ai suoi interessi illeciti. Il conflitto interno poneva San Luca al centro dell’attenzione dei media e soprattutto delle forze delle ordine.
Già ai suoi albori, tra il 1991 e il 1993, si era tentato di risolvere la faida sanlucota con la costituzione di un organo super partes, su ispirazione della cupola siciliana. Tentativo fallito perché a quanto si è visto le cosche interessate non cessarono di versare sangue avversario. A tal proposito si spiega il tentativo di mediazione molti anni dopo di Francesco Barbaro, per mezzo di uno scettico Giuseppe “Gambazza”, nonché la condanna a morte di Ciccio il pakistano. L’isolamento della follia di quest’ultimo è confermato anche dalla volontà della sua stessa cosca di consegnare gli esecutori materiali dell’omicidio di Maria Strangio, il fratello “Peppareglio” e il già citato Sebastiano Vottari, ai Nirta che ne chiedevano la testa.
Comunque la reazione dei Nirta-Strangio non si fece attendere e portò alla morte di altri soggetti noti alle forze dell’ordine nella Locride.
L’apice della faida e della vendetta lo si ebbe il 15 agosto 2007, quando il rinvenimento di sei corpi davanti alla pizzeria “Da Bruno” portò alla luce ciò che avvenne nella fatidica notte di Duisburg. A restare sull’asfalto davanti al ristorante “Da Bruno” furono i fratelli Marco e Francesco Pergola, Tommaso Venturi, Marco Marmo, Sebastiano e Francesco Giorgi. Tutti, secondo gli inquirenti, legati alla famiglia dei Pelle-Vottari-Romeo.
Le faide mafiose non sono mai solo semplici mattanze e susseguirsi di vendette, rientrano sempre in un preciso calcolo di interessi ma soprattutto in una simbologia legata al controllo del territorio e alle dinamiche dell’onore macchiato.
Ad ogni spargimento di sangue corrisponde una reazione ben elaborata contro le cosche nemiche. Veri e propri raid, se non spedizioni punitive, decisi e progettati a tavolino che non prevedono alcun proiettile di troppo, ma sono mirati a bersagli precisi con un calcolo maniacale dei rischi e delle conseguenze. Non esistono vittime inutili nella mentalità ‘ndranghetista, ogni omicidio mira a mandare un segnale, di intimidazione o di affermazione della propria superiorità, ma anche all’indebolimento della capacità militare delle ‘ndrine avversarie, che si riverbera nella loro capacità di “dettare le regole” negli affari economici.
Poi si aggiunge il fattore temporale: ogni episodio tragico di faida è proporzionato al periodo di pace antecedente, quasi che la violenza maturi nella pace e generi la pace successiva. Certo è che ogni periodo di non belligeranza permette alle cosche ferite di ricomporre i pezzi, organizzarsi e rinfoltire le fila militari fino a guardare alla pace con l’ansia che essa possa terminare con gesti clamorosi da parte degli avversari, cosa che di fatto accadde a Duisburg. Per non parlare del fatto che il periodo di pace quanto è più lungo tanto più permette alle cosche in cerca di vendetta di colpire bersagli con un sempre più elevato senso di sicurezza personale, tranquille della loro incolumità e soprattutto senza la pressione poliziesca che, giustamente, segue ogni precedente e efferato gesto che potrebbe scatenare una vendetta.









