‘Ndrangheta in Emilia, maxi sequestro beni a Giuseppe Iaquinta. Vita e affari del papà del Campione

La notizia è delle prime ore di questa mattina. La Dia ha dato esecuzione a un decreto di sequestro di beni per oltre 10 milioni di euro emesso dalla Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Bologna, su proposta del Direttore della Dia, nei confronti di un indiziato di appartenere alla ‘ndrangheta operante in Emilia-Romagna. Si tratta di Giuseppe Iaquinta, padre dell’ex calciatore Vincenzo, ex Juve e Campione del mondo nel 2006. Di seguito, un “ritratto” scritto qualche anno fa dal giornalista calabrese Peppe Baldessarro. 

di Giuseppe Baldessarro

Fonte: Repubblica

I carabinieri sono andati a prenderlo nella sua casa di Reggiolo alle dieci di sera. Per Giuseppe Iaquinta, padre di Vincenzo (ex calciatore della Juve e Campione del mondo), le porte del carcere si sono aperte poche ore dopo la lettura della sentenza del processo “Aemilia”. I giudici di primo grado del tribunale di Reggio Emilia lo hanno condannato a scontare 19 anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. Vincenzo invece in galera non ci dovrà andare, la condanna a 2 anni per reati relativi al possesso di armi prevede la sospensione della pena.

E’ comunque un colpo durissimo per l’ex calciatore, perché lui e il padre sono sempre stati legatissimi tra di loro, molti dicono che “erano una cosa sola”. Giuseppe Iaquinta, secondo le accuse della Dda di Bologna riconosciute dai giudici dell’aula bunker di Reggio Emilia, era organico al clan calabrese dei cutresi guidati dal boss Nicolino Grande Aracri. “Un affiliato puro”, trapiantato nella bassa reggiana, che da tantissimi anni era legato ai capi della cosca di ‘ndrangheta da “solidi legami di amicizia” e da “comuni interessi negli affari”. Il cutrese nel tempo aveva costruito un impero che lui stesso ha definito “da miliardario”.

Appalti pubblici e investimenti immobiliari, speculazioni nel settore del mattone e nel movimento terra. Giuseppe Iaquinta era uno dei più noti imprenditori della zona e non solo perché il figlio era diventata una star del calcio nazionale. Ci aveva messo del suo, solo che lo aveva fatto da mafioso legato ad altri mafiosi. Così dicono l’inchiesta e la sentenza.

I suoi guai giudiziari sono iniziati prima del processo “Aemilia”. Nel 2012 infatti (gli arresti sono di 3 anni dopo), l’azienda di famiglia, la “Iaquinta costruzioni” aveva ricevuto un’interdittiva antimafia. Un atto con cui la prefettura aveva escluso l’imprenditore da tutti i lavori pubblici e dalla ricostruzione post-terremoto emiliano del 2012. L’attestazione di azienda “pulita” gli venne tolta perché Giuseppe frequenta boss e picciotti dei clan. Lo avevano fermato con loro in macchina, lo avevano riconosciuto alle cene (ci sono foto che lo ritraggono con il figlio Vincenzo e il boss Grande Aracri), nei bar. Per la prefettura la sua era un’azienda “in odore di mafia”. Gli affari iniziano così a fermarsi e contemporaneamente Vincenzo commette l’errore che gli costerà la condanna a due anni: a Giuseppe viene vietato il possesso di armi e ritirato il permesso di possederne, il figlio acquista due pistole ed invece di custodirle a casa propria le consegna al padre. E’ un reato. Ma soprattutto è una pratica molto diffusa tra i mafiosi quella di tenere armi clandestine o intestate ad altri quando non ne possono avere. La cosa si scopre con le perquisizioni di “Aemilia”, il padre finisce accusato di associazione mafiosa e il figlio di reati in materia di armi.

Per i magistrati Giuseppe Iaquinta fa parte del clan, era “costantemente in contatto con gli altri associati”. Amico di Nicolino Grande Aracri e di alcuni suoi luogotenenti in Emilia Romagna, come Nicolino Sarcone. Partecipa agli affari del clan e mette a disposizione i suoi capitali per gli investimenti, procaccia affari per la “famiglia” (anche a Milano). Quando il boss tenta di ripulire una partita di dollari provenienti dall’estero, secondo i pm, Iaquinta si dice pronto a fare la sua parte. Si pensa di riciclare creando un un pool d’imprese per l’acquisizione di appalti e la realizzazione di villaggi turistici, in Calabria e non solo. Sono anni di investimenti e Giuseppe Iaquinta partecipa a diverse riunioni con i boss della cosca per discutere di affari e politica.

Quando i cutresi sono sotto attacco delle interdittive della prefettura l’imprenditore pianifica assieme ad altri mafiosi una reazione fatta a colpi di campagne mediatiche e di alleanze politiche. Ad una riunione partecipa anche Giuseppe Pagliani, esponente di primo piano del Pdl reggiano (la sua posizione è in discussione in Corte d’appello). Che Iaquinta faccia parte dell’ambiente, per i magistrati è dimostrato da una storia in apparenza minore: un’estate alla casa al mare in Calabria gli rubano due ombrelloni. Avrebbe potuto lasciar correre, o al contrario denunciare. Invece chiama un piccolo mafioso locale e se ne lamenta. E tutto si risolve in poche ore, con gli ombrelloni tornati miracolosamente al loro posto. Per l’accusa è la dimostrazione dell’atteggiamento mafioso.

Ai riscontri dei pm Beatrice Ronchi e Marco Mescolini si aggiungono poi i pentiti del clan: di lui dicono che “era uno dei nostri”. Lui invece nega tutto: “Sono una persona perbene, mi avete distrutto”.