Parola dell’ex pentito Antonio Parisi, siciliano d’origine, ma affiliato al clan dei calabresi di Coco Trovato a Milano, chiamato oggi a deporre dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo al processo ‘Ndrangheta stragista. In primo grado, quel procedimento è costato il settimo ergastolo al boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, che proprio a Reggio Calabria ha rotto un silenzio durato decenni per scagliarsi contro “il traditore Berlusconi” e il primo al mammasantissima calabrese, Rocco Santo Filippone. Entrambi sono stati condannati come mandanti dei tre attentati contro i carabinieri, con cui la ‘Ndrangheta ha firmato la propria partecipazione alla stagione degli attentati continentali. Una strategia in cui – è emerso nel corso del processo – anche servizi e settori della politica avrebbero avuto un ruolo.
E dei rapporti fra mafie, servizi e politica le registrazioni di cui Parisi ha parlato sarebbero una prova plastica, concreta. Ad averli in mano, dice, è Vittorio Jerinò. O meglio “uno lo ha un suo parente e uno è in un posto sicuro. È stato lo stesso Jerinò a confidarglielo, insieme ad una serie di informazioni che per lui Parisi avrebbe dovuto passare ai magistrati.
“In quella registrazione – sottolinea l’ex pentito – si sente Berlusconi ordinare cosa si dovesse fare, anche chi si doveva eliminare, tutto. Si parlava anche di affari”. Sulle date, non riesce ad essere preciso. “Non ricordo bene quando sia avvenuta la riunione – spiega Parisi – ma posso dire che è stata un anno prima dell’omicidio del vicepresidente del Consiglio regionale”.
Franco Fortugno è stato ucciso il 16 ottobre del 2005 a Locri. E un anno prima, l’allora premier Silvio Berlusconi è arrivato in visita a Reggio Calabria. È successo esattamente qualche giorno dopo la finta bomba al Comune di Reggio Calabria, che ha rilanciato le quotazioni di Giuseppe Scopelliti, l’allora sindaco della città scelto dai clan – ha ricostruito il processo Gotha – per trasformare la pubblica amministrazione in una stazione appaltante per la ‘Ndrangheta.
Un ordigno finto, che mai sarebbe potuto esplodere, ritrovato grazie a tre dettagliatissime informative firmate dall’ex capo della prima divisione del Sismi, Marco Mancini, che proprio in quel periodo aveva coordinato in Calabria una serie di sequestri di C4, ufficialmente destinati ad Al Qaeda. “In quella riunione si è parlato anche della finta bomba” aveva detto Parisi sotto interrogatorio.
Una strategia che potrebbe essere stata messa a punto durante le due riunioni convocate a Roma per “parlare di ‘Ndrangheta e di politica” avvenute qualche mese prima del “ritrovamento” di quell’ordigno. A svelarle, circa un anno fa, è stato l’ex assessore comunale Seby Vecchio, oggi pentito di ‘Ndrangheta. Nella capitale, nel 2004 è stata convocata stata una “doppia riunione”, “una negli uffici di An, alla presenza del senatore Valentino” e una seconda di fronte ai massimi esponenti della ‘Ndrangheta dell’epoca. Entrambe con un unico argomento: assicurarsi e garantire che Scopelliti avrebbe rispettato i patti e fatto il “cane di mandria”, non il potestà assolutamente autonomo nel definire gli accordi con i clan. L’accordo – ha assicurato Vecchio – è stato raggiunto. Ed ecco la necessità di organizzare la “buffonata” – copyright del procuratore aggiunto Lombardo – della bomba in Comune. Quello in cui – dice Parisi e confermano informative e note investigative ufficiali, rimaste per anni nascoste nei cassetti – i servizi hanno avuto un ruolo.
Parisi non sa o non vuole dire di più. Non in pubblico. Nel corso dell’udienza, non è stato facile farlo parlare. Nonostante nel 2019, sempre a Reggio Calabria, abbia risposto in modo dettagliato alle domande dei pm, oggi ha preferito trincerarsi dietro continui “non ricordo”. Trincerato dietro un presunto “principio di ictus”, avvenuto dopo la sua precedente deposizione in aula, più volte ha affermato di avere la memoria in panne, di ricordare solo pezzi della sua vita, criminale e non.
Curiosamente, quelli coperti da amnesia pressoché totale hanno quasi tutti a che fare con la famiglia Coco Trovato, i loro reati, i loro affari, i loro uomini che “se non erano diecimila poco ci mancava” dice l’ex pentito. Che ci tiene a sottolineare “io non ho inguaiato nessuno, non ho avuto sconti, 27 anni e un mese dovevo fare e li sto facendo”. Ma poi si lascia scappare “i Coco Trovato abitano accanto a casa mia, ho otto figli, tanti nipoti” e quasi implora il pm “non mi faccia ricordare”.
Ma su alcune cose, l’ex collaboratore non sembra avere troppe esitazioni. Anzi, fornisce anche dettagli ulteriori rispetto a quanto confidato in sede di interrogatorio. Si tratta delle confidenze affidategli da un altro ex collaboratore, Vittorio Jerinò. Un soggetto strano, con mani in pasta nel traffico di droga e nei sequestri, prossimo ad ambienti dell’intelligence, “di cui – aveva detto, interrogato – aveva anche i numeri di telefono riservati”. Avrebbero anche dovuto aiutarlo a evadere, sottolinea l’ex pentito.
Per questo, quando decide di raccontare davvero tutto quello che sa, inclusi i rapporti con i servizi, Jerinò adotta una serie di cautele. Non si fidava – spiega in aula Parisi – della lunga procedura indicata da un agente penitenziario: scrivere una lettera da inoltrare al direttore del carcere, per poi parlare con un investigatore e solo dopo con il pm. Troppi passaggi, troppe possibilità di essere scoperto. Per questo motivo avrebbe consegnato a Parisi un appunto e diverse confidenze, che anni fa Parisi ha affidato al procuratore aggiunto Lombardo e di cui oggi ha parlato in aula. “Lui è libero, non deve essere difficile trovarlo”. E chissà che la caccia non sia già cominciata.