Omicidio Bergamini. Donata: “Fino in fondo per il mio Denis. Grazie a Fabio Anselmo ed Eugenio Facciolla”

Oggi in Corte d’Assise a Cosenza si celebra la 39^ udienza del processo per l’omicidio volontario pluriaggravato di Denis Bergamini. Sarà un’udienza importante perché testimonierà Donata Bergamini, la sorella del calciatore rossoblù, che da 33 anni sta combattendo per avere giustizia dopo aver saputo la verità. Di seguito, la sua intervista pubblicata il 5 novembre 2022 dal settimanale “Oggi”.

di Massimo Arcidiacono

Fonte: Oggi

C’è una foto negli archivi, è del 2009: un uomo già anziano e una donna ancora giovane. Si chiamano Domizio e Donata Bergamini e reggono in mano la copia di un’altra foto, quella di un giovane sorridente. Si chiamava Denis, era un calciatore, ed è morto. Domizio e Donata mostrano anche un manifesto: “non dimenticare”, “ucciso”, “dolore”. C’è in quelle due foto la storia di un clamoroso cold case, di un errore giudiziario, di molte bugie. E c’è anche la vicenda di un padre desolato e di una sorella mai sconfitta.

La storia inizia il 18 novembre 1989. Il centrocampista Denis Bergamini è una piccola star del Cosenza, serie B. Il giorno dopo dovrebbe giocare, ma il suo corpo giace sulla statale jonica. La prima versione (quella ufficiale per quasi trent’anni) dice: “Denis si è buttato sotto un camion”. Suicidio, dunque. Da un anno esatto, però, una giuria passa in rassegna oltre 200 testimoni in cerca di una verità differente. Unica imputata Isabella Internò, ex fidanzata di Bergamini: concorso in omicidio aggravato dalla premeditazione per futili motivi. Lei era rimasta incinta e aveva abortito, lui l’aveva lasciata e frequentava un’altra. L’accusa è convinta che questo sia il movente e nell’ultima udienza (una settimana fa) il parere dei medici legali ha posto una croce sulla tesi del suicidio. Denis morì di asfissia meccanica, era già cadavere quando il camion gli passò sopra. Una svolta che giunge dopo la lunga, ostinata battaglia legale condotta da Fabio Anselmo, l’avvocato di chi non si arrende. “Non finirò mai di dirgli grazie. Ci ha spronato a non mollare ed è sua l’intuizione decisiva: insistere per una nuova autopsia”, dice Donata Bergamini.

Donata, 33 anni fa la vita della vostra famiglia cambiò per sempre. Una telefonata: Denis è morto in un incidente. Che cosa ricorda di quelle prime ore?

“Partimmo la sera stessa. Ricordo, oltre al dolore, l’incredulità per ciò che ci era stato detto sommariamente: i lunghi momenti di silenzio nel viaggio verso Cosenza alternati ai mille perché. Denis aveva lasciato la Internò, perché c’era proprio lei in quel momento? Perché a Roseto Capo Spulico, a cento chilometri da Cosenza? E poi, Denis non aveva mai abbandonato un ritiro, voleva vincerla quella partita col Messina, trasgredire voleva dire non giocarla. Quante domande frullavano in testa. Ricordo ancora la velocità con cui viaggiavamo come se fosse oggi: volevamo vederlo per l’ultima volta”.

La versione di Isabella Internò è sempre stata: “Denis si è suicidato tuffandosi sotto il camion”. Non le avete creduto fin dal primo momento. Cosa vi fece sospettare?

L’ultimo look di Isabella Internò, la mantide di Surdo

“Il corpo di Denis in camera mortuaria, anzitutto. E le troppe cose che non tornavano: la strana accoglienza del brigadiere Francesco Barbuscio e la velocità con cui ci voleva liquidare, gli oggetti che Denis indossava. In seguito. ciò che la Internò raccontò, la telenovela del suicidio. Denis amava vivere e noi lo sapevamo”.

Il momento più difficile? Quel 1992 in cui anche il processo d’Appello al camionista per omicidio colposo finì con l’assoluzione e la tesi del suicidio?

“Ci dissero che dovevamo portare nuove prove, il mondo sembrava caderci addosso: non riuscivamo a capire quali altre prove fossero necessarie. Anche un bambino avrebbe capito che non era stato un suicidio e nemmeno un incidente”.

Negli anni successivi di Bergamini si parlò poco. Chi vi è stato vicino in quei momenti?

“Il primo fu Oliviero Beha. L’unico fino al 2010 a far sentire la sua voce. Ne parlava in radio, e venne persino a casa nostra: voleva conoscerci”.

Ma anche i tifosi del Cosenza non dimenticarono. Vi ha dato coraggio?

“Non hanno mai dimenticato. Questo non solo ci diede coraggio, ma ci allarga ancora il cuore: il calcio era il mondo di Denis, amava i suoi tifosi e vederlo ricambiato resta una gioia grandissima. Non si sono nascosti per chiedere giustizia e verità, anzi sono riusciti a coinvolgere altre tifoserie. Penso, però, anche a chi ha lavorato sul caso di mio fratello e così facendo ha onorato una divisa, un camice o una toga. In particolare, a Eugenio Facciolla: il magistrato che fece propria l’istanza dell’avvocato Anselmo e senza il quale l’inchiesta non sarebbe stata riaperta”.

La svolta arrivò con la riesumazione del cadavere, trovato intatto. E con la scoperta che Denis era stato soffocato. 

“In quel momento la prima cosa a cui pensai fu il male e la paura che aveva dovuto sopportare mio fratello, la crudeltà con cui era stato ucciso. Ho pensato al fango che gli era stato gettato addosso”.

Scrissero persino di coinvolgimenti della ‘ndrangheta: smentiti del tutto dai pentiti chiamati a testimoniare. Intanto papà Domizio è morto senza poter assistere al processo.

“Ma ad assistere ora ci sono i miei tre figli: Andrea, Alice e Denis, che porta il nome dello zio. Ho raccontato loro chi era: una persona pulita, solare, altruista. E ho sempre detto loro che era stato ucciso”.

Ha avuto modo di conoscere i familiari di altre vittime di errori giudiziari?

Ilaria Cucchi e Donata Bergamini

“Alcuni di persona perché ho partecipato alle loro iniziative, altri mi hanno contattato nel tempo sui social: sono 33 anni che combatto. Una vita, in pratica. Una vita molto dura. So quanto sia importante, doloroso e faticoso scalare la montagna che porta alla giustizia. Penso, per esempio, che tra il caso di Denis e quello di Stefano Cucchi ci siano più similitudini di quanto si possa sospettare. Nei momenti cruciali, Ilaria Cucchi mi è stata vicina”.

Crede ancora nella giustizia?

“La verità è già arrivata. Perché ora la giustizia non dovrebbe farlo? Chi ha paura che ciò avvenga?”.