Omicidio Bergamini, il libro di Ceniti è una mazzata per i “difensori” del muro di gomma

di Gabriele Carchidi

Per venti lunghissimi e interminabili anni a Cosenza è stato severamente proibito e vietato soltanto parlare di Denis Bergamini. Non si riusciva a capire dove finiva la mafia e cominciava lo stato, ma nel dubbio la parola d’ordine era: fatti i cazzi tua alla cosentina o al massimo fatti i cazzi toi alla Cetto Laqualunque, perfetto modello “vivente” di commistione mafia-stato.

Quando, dopo vent’anni, qualche “minchione” s’è messo a indagare seriamente ci sono voluti solo pochi mesi per capire che dietro l’omicidio di Denis Bergamini c’era un monumentale muro di gomma reso possibile sempre da quella commistione tra mafia e stato ma con responsabilità principali proprio dello stato deviato: magistrati, carabinieri, poliziotti e naturalmente spioni dei servizi. Questa è la verità, comunque la si voglia girare. Un omicidio di stato ancora più grave di quelli di Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi. 

Se l’omicidio Bergamini è arrivato a processo lo si deve quasi esclusivamente alla cocciutaggine di questi “minchioni” che non hanno avuto paura: in primis il magistrato Eugenio Facciolla, quindi l’avvocato Fabio Anselmo e infine qualche giornalista. Oltre naturalmente alla famiglia di Denis.

Per oltre 25 anni il pensiero unico ha imposto tassativamente di non disturbare gli assassini proteggendoli fino al parossismo: per decenni non si sono potute pubblicare le foto di Isabella Internò e di suo marito poliziotto, per anni non si è potuta associare la parola “omicidio” a Denis Bergamini. Oggi, per fortuna, le cose sono cambiate ma bisogna avere memoria del passato. E questa memoria l’ha descritta molto bene Francesco Ceniti nel suo libro su Denis, cercando di “dribblare” così come faceva quando era un giovane calciatore, denunce e sgambetti.

Sono 33 anni che Denis Bergamini è stato ammazzato e adesso finalmente tutti possono dirlo senza rischiare di essere denunciati dalla mantide e da suo marito poliziotto. O essere minacciati di risarcimento civile dal loro legale, degno fratello di una poliziotta che a Cosenza è stata anche vicequestore al servizio della paranza. 

Ceniti non è solo un bravo giornalista sportivo. E’ un giornalista di inchiesta che ha lavorato per la verità non solo per l’omicidio Bergamini ma anche per l’omicidio di Marco Pantani e questa etichetta – di “giornalista di inchiesta” – non gliela può negare nessuno perché se l’è conquistata sul campo. A differenza di chi continua a fare il cane da salotto nelle stanze dei bottoni della Calabria-bene. 

L’omicidio di Denis Bergamini ovviamente non è stato organizzato materialmente dalla sua ex fidanzata, che è soltanto una pedina dell’ingranaggio mostruoso che ancora regge dopo tutti questi anni e che coinvolge – lo ribadiamo perché è bene che lo si ripeta anche fino alla noia – magistrati, carabinieri, poliziotti e spioni dei servizi. Altrimenti non sarebbe rimasto impunito per 33 anni. 

A Cosenza la stragrande maggioranza dei giornalisti non ha preso posizione perché ha paura e perché gli editori che danno loro da mangiare non hanno nessun interesse ad esporsi, anzi… Ce ne sono alcuni poi che sono veri e propri fiancheggiatori della lobby di potere che fino ad oggi ha insabbiato tutto e tutti ormai ne conoscono nomi e cognomi.

Oggi gli strenui difensori dell’imputata di “lusso” del processo vedono come il fumo negli occhi Francesco Ceniti ma ancora più di lui Gianluca Di Marzio, che nella prefazione del libro ha menato giù pesante e ogni parola è arrivata a destinazione. Non solo l’attacco “Non ho mai pensato, neanche solo per un secondo che Denis si fosse tolto la vita. Mai”. Ma soprattutto il finale: “… Perché la vita di un ragazzo che sognava semplicemente di giocare in Serie A è stata spezzata sul più bello. Nel modo più atroce. E senza prendersene la responsabilità, da vigliacchi: Donato Bergamini non si è suicidato ma è stato ucciso. Meritava di morire in pace, come adesso la sua fedele e incrollabile famiglia merita di sapere. E vedere i colpevoli puniti: non sarà mai troppo tardi, caro Denis”- 

Ceniti, dal canto suo, s’è divertito a “uccellare” i falsi garantisti che per anni hanno dettato legge nel giornale – Il Quotidiano della Calabria oggi Quotidiano del Sud – nel quale s’è fatto le ossa a stretto contatto con molti di quelli che oggi si occupano del processo Bergamini. Inevitabilmente hanno nomi romanzati ma sono riconoscibilissimi. Domenico, tanto per fare un esempio, è il cronista che è riuscito ad attapirare clamorosamente l’addetto stampa degli assassini sul… suo stesso giornale. E poi ce n’è uno in particolare al quale – giustamente – Ceniti non gliel’ha neanche cambiato il nome, suscitando così il suo risentimento “isterico” e una recensione da Serie D, volendo essere generosi.

Altro che omicidio per “partito preso” o “ragionevole dubbio” su un ipotetico suicidio.  Perché è facile fare i garantisti o anche i fascisti – a seconda della “guagna” che si riceve – in democrazia. Per esempio, presentando il libro (quella sì che fu una recensione memorabile) del terrorista nero Delle Chiaie. Ma non hanno mai provato a fare i garantisti o i democratici in dittatura. Perché ancora – dicono – non gli sono spuntati i coglioni e se non sono spuntati a 50 o peggio ancora a 60 anni ormai non spunteranno più. Sempre e rigorosamente a futura memoria.