Su una cosa l’emerito Giorgio Napolitano, il vero padre della riforma costituzionale, ha ragione: l’argomentazione dei presunti risparmi economici per le casse dello stato, qualora vincesse il sì nel prossimo referendum del 4 dicembre, è veramente patetica e ridicola.
Ogni regime politico, non solo la democrazia, ha dei costi elevati in quanto questo è ciò che si definisce stato. E poi risparmiare rispetto a cosa? Per quale motivo? Quando sappiamo benissimo che il debito pubblico è un fattore strutturale nelle economie degli stati e che rispetto alla sua enormità i quattro spicci in meno rappresentano soltanto una trovata demagogica per ottenere consensi, soprattutto in un paese falcidiato dalla crisi, dalla precarietà e da un impoverimento costante.
Ma siamo ancora vittime dell’ideologia dell’austerità imposta dalla tecnocrazia e dalla finanza europea, di conseguenza, per riflesso subiamo anche le retoriche del grillismo becero e qualunquista che risolve i problemi della crisi d nel capitalismo neoliberista tagliando lo stipendio a qualche parlamentare. Lungi da me difendere i privilegi della casta di politici maiali e corrotti, però non è questo il punto.
La partita che si sta giocando è squisitamente politica, di fondamentale importanza per l’avvenire. In palio ci sono 47 articoli della costituzione e la trasformazione in senso oligarchico del nostro sistema politico costituzionale. La democrazia liberale e dunque il suo costituzionalismo, con la precisa funzione d’arginare il potere dei governi, è in dismissione.
Su una cosa Maria Elena Boschi, madrina firmataria dalla riforma, ha ragione: finalmente, al netto delle varie degenerazioni, delle “accozzaglie”, e delle “scrofe ferite”, si parla di costituzione e di politica.
In queste settimane sono andato in giro per le varie iniziative del fronte del no e di quello del sì, e lo ho viste tutte piene. Saranno state spesso truppe “cammellate”, clientele e militanti di partito, ma la percezione è quella di un paese che vuole sapere, che s’interessa e basta fare due chiacchiere con uno sconosciuto mentre si aspetta l’autobus alla fermata per rendersene conto.
Il clima e l’umore nelle classi sociali subalterne è tutto rivolto al 4 dicembre. Dunque, prima di dire che tutto questo non cambierà nulla nelle nostre vite, che non ci riguarda, bisognerebbe cogliere le tante aspettative popolari che attorno a questa data si stanno coagulando.
D’altra parte i campioni del politicamente corretto, spaventati da ciò che potrà succedere, inorridiscono rispetto a qualche battuta ed ai toni accesi di questa campagna referendaria; ma la verità è che il livello del dibattito pubblico nel paese, a torto o a ragione, si è elevato.
Spiegare ad un operaio metalmeccanico gli effetti di un esecutivo forte rispetto al parlamento e le ripercussioni che ciò avrà nella sua vita per i futuri decenni; farlo comprendere ad un occupante di casa; parlare con un attivista dei comitati territoriali ambientalisti allarmato per la “clausola di supremazia” in revisione del titolo quinto; oppure discutere con uno studente preoccupato per il rischio di un presidenzialismo di fatto che accentra tutti i poteri nelle mani di una sola persona, senza alcun contrappeso istituzionale; costituisce sicuramente un passo in avanti verso una soggettivazione politica.
Se si occupano le scuole o le facoltà, non per fare un dispetto al preside o al rettore, ma per prendere parola contro la “rottamazione” dei diritti costituzionali, è sicuramente qualcosa d’ estremamente positivo.
Si tratta di un referendum confermativo, senza quorum, quindi la posizione dall’astensione che considera tutto questo soltanto come uno scontro di potere interno tra le classi dirigenti è certo legittima, ma dal punto di vista politico estremamente debole se non irrilevante.
Inoltre il grado di coinvolgimento della popolazione rispetto a quest’appuntamento referendario non lo rende affatto un affare elitario, in quanto le conseguenze e le motivazioni politiche che ci riguardano sono molteplici, infinite, specie in chi subisce e si è sempre opposto alle politiche scellerate del governo Renzi, in particolare nella materia dei diritti dei lavoratori, attraverso il jobs act. Non a caso sia la riforma costituzionale, che la buona scuola, che quella del mercato del lavoro, vanno tutte nella medesima direzione, ovvero verso una gerarchizzazione della società in ogni suo ambito.
Su una cosa JP Morgan, veri ispiratori di queste riforme nel famoso documento del 2013, avevano ragione: la costituzione è intrisa di socialismo. Perchè nata dalla resistenza antifascista come compromesso fra le istanze liberali e quelle comuniste, come argine per eventuali pulsioni autoritarie.
Certo in grande parte inapplicata, nei suoi principi fondamentali, ma se solo si pensa a quello che avrebbe potuto combinare il Berlusconi del 1994 o del 2001 assieme a tutti i fascisti-leghisti al seguito, senza i vincoli ed i limiti imposti dalla costituzione; si comprenderebbe come questa non sia stata del tutto inutile.
Se non c’era l’architrave istituzionale a fermarlo, a bloccarlo, ad impantanarlo, nelle diverse maggioranze tra camera e senato, nei rimpalli, nelle prese di posizione dei vari Presidenti della Repubblica, nelle campagne d’opinione pubblica e nei movimenti d’opposizione sociale e politica ai suoi governi, adesso probabilmente saremo in tutt’altra situazione, sicuramente peggiore, se possibile.
Come dimenticare, in tal senso, il referendum costituzionale del 2005 quando il tentativo dello stesso Berlusconi di stravolgere la carta fondamentale in senso autoritario, del tutto simile a questo attuale, venne bocciato nelle urne. La vera questione è che storicamente i liberali hanno sempre detestato il suffragio universale, la democrazia parlamentare, i vincoli, i lacci ed i “lacciuoli” che questa porta con se.
Per loro è insopportabile che il voto di un bracciante agricolo abbia lo stesso peso di quello di un banchiere. Anche il diritto di votare, secondo l’antica dottrina dei padroni delle ferriere, dovrebbe essere attribuito in base al censo e non in virtù della sola cittadinanza.
Negli anni novanta con l’avvento di Clinton e la terza via di Tony Blair, nel tentativo di far digerire la globalizzazione neoliberista alle opinioni pubbliche occidentali, i liberal democratici cercarono di coniugare i diritti individuali (dunque anche quelli politici) con le istanze economiche del capitale globale. Ora che questa ipotesi è stata clamorosamente sconfitta dalla storia, negli Stati Uniti dall’inquietante Trump, in Inghilterra dal Brexit e nell’Europa continentale dai furori nazionalistici, per i liberali europei non resta che guardare con interesse ad un sistema oligarchico, dove il potere si concentra nelle mani di pochi, come in Turchia o in Russia.
Del resto un secolo fa il padronato guardò con simpatia l’ascesa del primo fascismo. Quindi nulla di nuovo. Per queste ragioni le costituzioni che controllano e limitano il potere dell’esecutivo oggi rappresentano soltanto un ostacolo.
Bisogna avere le mani libere per reprimere il dissenso sociale, per soggiogare la società, sopprimere i diritti dei lavoratori, fare gli interessi dei poteri forti, senza alcun problema di consenso politico. E’ questo l’ordine improrogabile che giunge dall’alto di qualche grattacielo. Per quanto riguarda gli scenari del dopo referendum, probabilmente con la vittoria del no s’innescherà uno sbalzo, una rottura, un problema politico per il potere.
Renzi si dimetterà, per sopravvivere politicamente e potersi giocare ancora le sue carte nelle prossime elezioni. Il presidente delle Repubblica Mattarella, fino a questo momento insignificante, considerando l’indisponibilità dell’attuale premier per eventuali bis, potrebbe mettere in piedi un governo tecnico (o presunto tale), di scopo, in attesa della sentenza della consulta sull’Italicum e delle eventuali modifiche alla legge elettorale in chiave anti movimento cinque stelle, traghettando così il paese al voto.
In molti, con la vittoria del no, auspicano una legge elettorale proporzionale capace d’esprimere un’ammucchiata di governo, una grande coalizione. Questo pare lo scenario più probabile e sarebbe pure un’occasione buona per prendere fiato, arginare l’ondata reazionaria ed organizzare il no sociale post referendum dei movimenti.
Mentre se vince il sì, ha vinto Renzi per i prossimi dieci anni, Napolitano diventa un sultano, una specie di ayatollah, il fascismo vecchio e nuovo ringrazia, la finanza pure, ed i giochi si chiudono per un bel po’…
Anche perché con una sola camera totalmente controllata dal governo ed un esecutivo forte senza nessun bilanciamento di potere, il dopo Renzi fa ancora più paura….Viviamo in una società ed in un panorama internazionale in cui il vento soffia sempre più forte a destra ed il fascismo, il razzismo, la regressione, appaiono minacciosi all’orizzonte, dove non si prevede proprio nulla di buono ma solo tempeste… Su una cosa, invece, credo d’avere ragione io…meglio non pensare al futuro…
IL CNEL