Reggio Calabria, dove non tutto è ‘ndrangheta ma molto lo è

Paolo Romeo

Tra scandali e inchieste in riva allo Stretto
“Reggio Calabria, la città sospesa”: il viaggio di Repubblica tra scandali e inchieste in riva allo Stretto
Data: 1 Luglio 2022

Il viaggio tutt’altro che felice realizzato meno di tre mesi fa da Repubblica sulla città di Reggio Calabria: alla città dello Stretto è dedicato un lungo approfondimento tra scandali, inchieste e non solo

di Carlo Bonini e Alessia Candito

Fonte: Repubblica

La chiamano “la calmeria di Scirocco”. Sullo Stretto dove il vento non ha pace e le correnti hanno ispirato mostri omerici, in quei momenti tutto si ferma. È immobile l’aria, densa come melassa. È un lago il mare, tavola liscia senza neanche un’increspatura. L’orizzonte diventa lattiginoso, le sponde quasi spariscono nel riverbero. Non si respira, qualsiasi movimento sembra costare fatica e allora tutto rimane fermo. A Reggio Calabria il vento continua a cambiare, ma da mesi la città vive sprofondata in una calmeria di Scirocco che sembra non avere fine, mentre uno dopo l’altro se ne sbriciolano i pilastri.

Non tutto è ‘Ndrangheta, ma molto lo è

Sospeso è il sindaco Giuseppe Falcomatà, eletto a dispetto di un processo in corso e finito in panchina insieme a metà della sua prima Giunta per effetto della legge Severino. Sospeso è uno dei principi delle preferenze, Nino Castorina, ex enfant prodige del Pd, accompagnato alla porta quando la Procura ha scoperto che per farsi eleggere aveva fatto votare pure i morti.

Sospesa e affidata ad un reggente in attesa di nuove elezioni è stata  per un po’ anche l’Università Mediterranea, dove grazie al sistema garantito dall’ex rettore Marcello Zimbone e dal suo predecessore, Pasquale Catanoso, tutto era in vendita: ruoli da professore ordinario, concorsi da ricercatore, persino l’accesso ai corsi di formazione necessari per accumulare i crediti necessari per insegnare nelle scuole. Sospesa in un mare di debiti sconosciuto, calcolato a spanne dalla Corte dei Conti in circa 500 milioni di euro dopo quasi dieci anni di “contabilità orale”, è l’azienda sanitaria di Reggio Calabria, commissariata per ‘Ndrangheta e che ancora arranca a dispetto della pioggia di denari arrivata sugli ospedali negli anni di pandemia.

Sospeso per mesi, fino all’arrivo di un nuovo investitore, è stato persino il destino della squadra di calcio della città. Quella Reggina che negli anni della serie A sfoggiava orgogliosa sulla maglia l’improbabile sponsor “Credit Suisse” – e nel palmarès vanta un vicepresidente condannato per concorso esterno in associazione mafiosa in primo e secondo grado, salvo poi strappare un nuovo processo in Cassazione – ha rischiato di naufragare per l’arresto del suo ormai ex presidente Luca Gallo. Nei conti (in rosso) della squadra per la Procura di Roma erano finiti anche i soldi di Tfr, indennità di malattia e maternità, stipendi che Gallo ometteva di versare alle migliaia di lavoratori che abusivamente somministrava a centinaia di imprese.

Cronicamente sospeso è il destino dell’aeroporto di Reggio Calabria, il cui rilancio è da tempo immemore promessa bipartisan di ogni aspirante rappresentante eletto, inevitabilmente destinata ad accartocciarsi sui limiti strutturali dello scalo. La città rimane lontana da tutto, con un’autostrada che ci arriva per finta – per finire la “Salerno-Reggio Calabria” nei tempi stabiliti, il governo di Matteo Renzi ha deciso di farla fermare a Villa San Giovanni, declassando l’ultimo tratto a raccordo diventato rosario infinito di lavori (e sequestri) – e persino un servizio di traghettamento sub iudice.

Stretto di Messina. Anche il traghettamento è 'sub iudice'. Da 18 mesi la Caronte & Tourist, società che lo gestisce, è in amministrazione giudiziaria (foto Marco Costantino) 
Stretto di Messina. Anche il traghettamento è ‘sub iudice’. Da 18 mesi la Caronte & Tourist, società che lo gestisce, è in amministrazione giudiziaria (foto Marco Costantino)

Dal 3 febbraio 2021, la Caronte & Tourist, compagnia di navigazione che si occupa in regime di monopolio del passaggio tra le sponde calabresi e siciliane dello Stretto, è in amministrazione giudiziaria. Troppo porosa agli interessi dei clan per essere lasciata al management delle famiglie Matacena e Franza, che la controllano insieme ad un insondabile fondo inglese. Inizialmente, il provvedimento ordinava che quella sorta di commissariamento durasse sei mesi. Ma siamo alla terza proroga perché – evidentemente – la società non è stata ancora bonificata.

Non tutto è ‘Ndrangheta a Reggio Calabria, ma molto lo è. L’indotto mafioso – felice definizione del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo per indicare quel tessuto connettivo che non è fatto di clan, ma di gente che li tollera, ne introietta le logiche, finisce per rassegnarsi alle regole – innerva buona parte del tessuto sociale, imprenditoriale, culturale della città.

Secondo l’inchiesta Gotha, che proprio Lombardo ha coordinato, non è un caso. È l’esito di un processo, il risultato ultimo di un progetto di alta mafia, che ha portato i clan a controllare le leve fondamentali della politica, dell’economia, della cultura di Reggio Calabria. E il tribunale ha confermato quella ricostruzione. Il 30 luglio 2021 è stato condannato a 25 anni di carcere l’ex parlamentare Paolo Romeo, che di quel piano di conquista ha gestito la regia in nome e per conto della direzione strategica della ‘Ndrangheta. Ma è rimasto a piede libero. Ha più di settant’anni, la condanna non è definitiva, non c’è pericolo che fugga, inquini le prove, torni a commettere i medesimi reati. A quanto pare. Così come a piede libero da poco è tornato Giorgio De Stefano, l’altra metà della “divinità bifronte” che per i giudici governava le grandi strategie dei clan a Reggio Calabria. Ai domiciliari da ottobre 2021 per motivi di salute, nel marzo scorso è stato scarcerato.

La condanna in appello a 15 anni e sei mesi è stata annullata dalla Cassazione, il processo di secondo grado – hanno ordinato gli ermellini – è da rifare. “E magari ci saranno anche nuove indagini” era filtrato all’epoca da ambienti investigativi.

Il palazzo di giustizia

Di fronte all’ufficio del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, quotidianamente c’è un via vai di cancellieri con carte da firmare e intercettazioni da autorizzare, investigatori con faldoni più o meno enormi al seguito, magistrati che bussano per un consiglio, un chiarimento, una lavata di capo facile da ascoltare anche dall’esterno grazie alle porte di carta velina. Tutti giovani, molti di prima nomina. E obbligati a imparare in fretta a orientarsi tanto in una città dove nulla è come sembra, come nei labirintici corridoi dell’ufficio, lastricati di vecchio linoleum un tempo verde.

La chiave sta nei bagni. Verdi anche quelli e spesso guasti. A seconda di quante volte si attraversano, si capisce in che ala della Procura ci si trova. Doveva essere una sistemazione provvisoria in attesa del nuovo palazzo di giustizia, il cui cantiere da diciassette anni è visibile da circa un quarto degli uffici dei magistrati. E ha il sapore di una beffa.

Il nuovo palazzo di giustizia ancora in costruzione. (Foto Serranò)
Il nuovo palazzo di giustizia ancora in costruzione. (Foto Serranò) (agf)

Le inchieste che fra quegli scavi hanno stanato l’ombra dei clan pronti a imporre forniture, mezzi, manodopera e persino la mensa hanno fatto in tempo ad arrivare a sentenza definitiva; i lavori invece sono ancora in corso. Fra mille interruzioni, rinvii, varianti, contenziosi fra privati e Comune, ditte fallite, interdette, stufe dei ritardi nei pagamenti, il cantiere da più di un decennio apre, poi si ferma, apre di nuovo, si paralizza ancora. Adesso di mezzo ci si è messo il Ministero della Giustizia, in veste di “super garante” del completamento della struttura. Secondo le stime più prudenti ci vorranno ancora almeno cinque anni. Sempre che gli infiniti stop, con pilastri e mura esposti alle intemperie, non abbiano già condannato il “nuovo” Palagiustizia all’obsolescenza.

Ma si continua ad aspettare, perché quello spazio serve. Ad ogni inaugurazione dell’anno giudiziario, da un po’ di tempo celebrata alla Scuola Allievi Carabinieri per mancanza di luoghi sufficientemente grandi o decorosi, il presidente della Corte d’Appello Luciano Gerardis lo ripete. Ma è solo uno dei punti del cahier de doléances che anno dopo anno si ripete uguale a se stesso. Perché nella capitale della ‘Ndrangheta manca tutto. Gli spazi, le aule, il personale amministrativo, i pm, i giudici.

“Malgrado Reggio Calabria sia la capitale storica ed attuale della ‘Ndrangheta, che per la sua multiforme attività illecita intasa la giurisdizione, condizionando inevitabilmente la stessa destinazione delle risorse disponibili –  ha detto qualche mese fa Gerardis davanti alla ministra Marta Cartabia, seduta in prima fila – gli organici dei magistrati continuano a rimanere desolatamente scoperti”.

Perché i bandi ordinari vanno deserti, quelli straordinari pure, mentre negli uffici non si arresta “l’esodo massiccio verso altre sedi”. Solo in Corte d’appello mancano sedici magistrati, in Procura oltre ai due aggiunti, quasi una decina di pm, ancor più drammatica è la situazione fra giudici e gip, per non parlare del civile. L’impegno invece è enorme: nelle sole sezioni penali dibattimentali della Corte d’appello sono 167 i procedimenti antimafia con 924 imputati di cui 368 detenuti, negli uffici giudicanti del distretto 306.

In molti da Reggio Calabria scappano, dopo un periodo più o meno lungo. Chi rimane aspetta. Ma i tempi si allungano così tanto che magistrati di larga esperienza finiscono per dover rinunciare alle indagini di cui si sono sempre occupati perché il loro tempo in distrettuale antimafia è scaduto.

Norma vuole che un pm non possa mantenere la medesima specializzazione per oltre dieci anni. Ed è così che Stefano Musolino, attuale segretario di Magistratura democratica e per lungo tempo al timone di importanti indagini che hanno ricostruito assetti e affari delle cosche di Reggio città, è stato costretto a tornare a occuparsi di reati ordinari. Continua a seguire alcuni processi già in corso, ma anni di conoscenza ed esperienza accumulata sono stati di fatto dilapidati. Si può solo rassegnare ad aspettare anche lui.

È uno degli otto magistrati che ha presentato domanda per uno dei posti da procuratore aggiunto rimasti vacanti. Insieme alla sua, sono arrivate le candidature del procuratore della Repubblica di Caltagirone Giuseppe Verzera, del sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia Salvatore Dolce, dei pm Walter Ignazitto di Reggio Calabria, Pietro Pollidori di Roma, Marco Colamonici di Salerno, Pasquale Pacifico di Caltanissetta e del gip di Napoli Maria Luisa Miranda. Il bando si è chiuso a gennaio, ma la selezione non è stata ancora definita. C’è da attendere. Ancora. E nel frattempo si naviga a vista.

Una vecchia circolare consente al procuratore capo Bombardieri di mantenere poteri e facoltà fino alla nuova determinazione del Csm anche dopo l’annullamento della sua nomina, ma fra le carte e la realtà c’è la percezione di una città, in larga parte storicamente scettica nei confronti della Procura e della sua azione.

“Hanno fatto l’inchiesta sui concorsi aggiustati in università e adesso si scopre che è illegittimo anche il procuratore”, si commenta malignamente nei corridoi dell’Università, messa sottosopra dall’inchiesta “Magnifica” che ha fatto saltare rettore, prorettore, capidipartimento. “È tutto fermo, non si muove più niente”, mastica amaro un investigatore. “Vedrai, piuttosto che farsi cacciare Bombardieri se ne va”, sibila un avvocato di lungo corso e clienti di peso. “Da Roma che aspettano?”, si chiedono in molti.

Ma rimane chiacchiericcio, ronzio da conversazioni da bar, mentre nelle scalcinate aule di giustizia si continuano a definire traffici di droga internazionali, pezzi di verità sulla stagione degli attentati continentali, logiche, regole e assetti delle famiglie che in città e nella provincia controllano tutto. Dai cimiteri agli ospedali, dai locali notturni ai grandi appalti, dai quartieri alle attività delle istituzioni.

La Procura invece rimane in silenzio. Da sempre allergica ai riflettori, con l’introduzione delle nuove norme che regolano i rapporti fra magistratura e stampa ha smesso di parlare alla città, limitandosi alla sporadica partecipazione a qualche incontro o evento pubblico. Alcuni dei magistrati, in forma del tutto riservata, interloquiscono con le associazioni che provano a lavorare nei quartieri – refoli di vento nell’aria stantia – ma senza dare nell’occhio. Il silenzio però è diventato tombale e nonostante gli uffici si trovino a pochi passi dal centro, la distanza dalla città quotidianamente si allarga. Come le ore quando viene giù la cappa della calmeria di Scirocco.

L’eredità avvelenata nel laboratorio dell’eversione

Eccola Reggio Calabria. Per capirla davvero però non bisogna pensare al lungomare, balcone sullo Stretto diventato cartolina sbandierata come “chilometro più bello d’Italia”, con citazione rubata a D’Annunzio, per celare le negligenze di ogni amministrazione. È necessario andare in periferia, ad Arghillà Nord. Quartierone dell’hinterland disseminato di palazzi destinati all’edilizia popolare, è il tappeto sotto cui la città ha nascosto tanta della sua polvere.

Il Lungomare Italo Falcomatà. (Foto Serranò)
Il Lungomare Italo Falcomatà. (Foto Serranò)
(agf)

All’inizio dei Duemila, negli anni da sindaco di Giuseppe Scopelliti, ex segretario del Fronte della gioventù prima degli inciampi giudiziari considerato enfant prodige della destra che si scrollava di dosso l’eredità dell’Msi, è lì che è stata trasferita volente o nolente gran parte della comunità rom di Reggio. Lì finiscono anche i migranti e i marginali.

Ironia della sorte, Scopelliti ha finito per guardare ogni giorno quel quartiere trasformato in ghetto dalle finestre del carcere costruito poco sopra e in cui per anni è stato rinchiuso dopo una condanna definitiva per abuso d’ufficio e falso in atto pubblico. Nello specifico, l’atto era il bilancio del Comune, taroccato – hanno stabilito i giudici – per coprire la voragine finanziaria servita per alimentare clientele, distribuire prebende, appalti, lavori e favori, creare centri di potere e che ha mandato a gambe all’aria l’amministrazione. Sciolta per mafia – primo capoluogo di provincia d’Italia – prima che per debiti, ma comunque sottoposta a un piano di rientro destinato a durare decenni.

Ma negli anni da sindaco di Peppe Scopelliti tutto questo non si immaginava. Né si intuiva la rete di potere mafioso – di recente ricostruita dal processo Gotha – sottesa alla sua elezione. Scopelliti – si afferma nella sentenza del primo grado ordinario, in questo non intaccata dalla decisione con cui la Cassazione ha ordinato un nuovo processo per diversi imputati dell’abbreviato – serviva alla direzione strategica della ‘Ndrangheta per mettere le mani sul Comune, in quegli anni al lavoro per diventare Città metropolitana. E ovviamente su tutti fondi europei, statali, regionali che sarebbero arrivati.

L'ex parlamentare del Psdi Paolo Romeo in tribunale durante un processo. Reggio Calabria, 30 luglio 2021
 (ansa)

Un piano con regia affidata a Paolo Romeo per la direzione strategica della ‘Ndrangheta ed esecuzione a pochi, selezionati “riservati” – uomini che neanche gli affiliati immaginano legati ai clan – e alle più importanti cosche della città. Un progetto antico. Perché Romeo da almeno cinquant’anni – raccontano i pentiti, le inchieste, le sentenze – è il baricentro politico, economico, sociale della città, di fronte a cui tanta intellighenzia bipartisan ha continuato a scappellarsi a dispetto di una condanna definitiva per concorso esterno rimediata negli anni Novanta come eminenza grigia del clan De Stefano. L’aristocrazia della ‘Ndrangheta, non solo reggina. E non solo perché le ultime generazioni dei rampolli di famiglia – su tutti Giorgetto De Stefano – prima di essere arrestati pasteggiavano a champagne, fra veline e starlette, nei locali in di Milano.

Casato antico, che nelle carte giudiziarie appare fin dai processi che nell’Ottocento raccontavano l’ingerenza della picciotteria nelle elezioni comunali, i De Stefano hanno avuto in mano la forgia della nuova ‘Ndrangheta. Quella che fin dagli anni Settanta ha diviso l’organizzazione in una parte visibile, che si manifesta nelle strade e una invisibile, a suo agio nei salotti, che governa i palazzi, addomestica le istituzioni, intossica l’economia.

Per i giudici, Romeo viene da quel mondo. Uomo di Gladio per alcuni pentiti, massone di alto rango per tutti o quasi i collaboratori che hanno parlato di lui. Ufficialmente avvocato ed ex parlamentare dello Psdi, ma con una lunga storia nella destra missina e fin troppi amici e contatti nell’eversione nera, a partire da quel Franco Freda che ha ammesso di aver nascosto da latitante per la strage di piazza Fontana, a Reggio Calabria Romeo è un riferimento fin dai tempi dei Moti degli anni Settanta e del tentato golpe Borghese, che proprio dalla città dello Stretto doveva partire. Il primo grande, forse impensabile laboratorio della joint venture fra clan, settori delle istituzioni, dei servizi e della massoneria che – ipotizzano oggi inchieste come ‘Ndrangheta stragista – è tornato allo scoperto negli anni delle stragi. E anche prima – da Piazza della Loggia alla strategia della tensione – se ne necessario.

Gioco di specchi

Quando Romeo è stato arrestato, il circolo sul lungomare di Gallico che storicamente è stato il suo quartier generale è stato abbattuto. Dalle macerie è saltata fuori una pubblicazione. “Rivista massonica” si leggeva sul frontespizio. Dentro c’era un articolo che spiegava in dettaglio come si strutturi un’organizzazione che abbia una parte visibile e una invisibile. Esattamente come – dimostrano i processi più recenti – si struttura la ‘Ndrangheta. Che non siano fantasticherie o “visioni” di magistrati, come è capitato fossero bollate da interessati commentatori, è anche un ex pentito a dirlo. E non oggi.

Circolo Posidonia. Era il quartier generale dell’avvocato Paolo Romeo, è stato demolito dopo il suo arresto come componente della direzione strategica della ‘Ndrangheta (foto Marco Costantino)
Circolo Posidonia. Era il quartier generale dell’avvocato Paolo Romeo, è stato demolito dopo il suo arresto come componente della direzione strategica della ‘Ndrangheta (foto Marco Costantino) 

Anche lui si chiama Romeo, ma non ha nulla a che fare né con l’ex parlamentare, né con Reggio. Viene da Platì, ma è diventato “grande” in quella zona dell’hinterland milanese fra Corsico e Buccinasco che il clan Papalia ha trasformato nella “Platì del nord”. È in quella zona che per conto dei suoi ha messo in piedi le prime raffinerie industriali di droga. “I soldi li contavamo a bancali”, dice. “E con quel denaro ci siamo presi Milano”. Nell’organizzazione non è mai stato un uomo di fila.

Quando nel ’96 ha collaborato per un breve periodo con la giustizia, Annunziatino Romeo ai magistrati di Milano ha raccontato che esiste un organismo di vertice della ‘Ndrangheta. Si chiama “Camera”, pochissimi ne conoscono l’esistenza, accoglie due rappresentanti per ogni mandamento ed è l’unico deputato a gestire i rapporti, spesso addomesticati da canali massonici, con settori delle istituzioni, dei servizi, della destra eversiva, della politica. I suoi di Platì, ha raccontato, in carniere avevano anche il generale Francesco Delfino, ambiguo militare prestato anche ai servizi, più volte indagato per i depistaggi che hanno intossicato le indagini sulla stagione dei sequestri e sulle stragi, a partire da quella di Brescia. “Quella che conta – spiega – è la parte che non vedi, loro vogliono che sia così”. Il vero potere non si mostra, non si ostenta.

Questo, per i magistrati di Reggio Calabria, è l’ambito in cui si muoveva anche Paolo Romeo. Ecco perché, ricostruisce l’inchiesta Gotha, è lui a preoccuparsi che il piano di conquista del Comune di Reggio Calabria non deragli. Il rischio che succeda attorno al 2003 c’è. In quel periodo, contestazioni di piazza, danneggiamenti, piccoli attentati ad auto e proprietà private di consiglieri e dipendenti comunali si susseguono; la popolarità del sindaco è in caduta libera. “La causa della contestazione era proprio questa: Peppe (Scopelliti ndr) doveva mettersi in riga con le varie famiglie, doveva smettere di favorire così tanto i De Stefano”, racconta quasi vent’anni dopo Seby Vecchio, oggi pentito di ‘Ndrangheta, all’epoca poliziotto con il pallino della politica chiamato in Giunta comunale.

I nuovi assetti si decidono nel corso di una doppia riunione. Non a Reggio Calabria, ma nella Capitale dove i clan della città calabrese dello Stretto sono di casa fin dagli anni Settanta. La prima, racconta il pentito, convocata per “parlare di ‘ndrangheta e di politica” negli uffici dell’allora An; la seconda, al cospetto dei rappresentanti dell’élite delle famiglie di ‘Ndrangheta. L’accordo si trova, Scopelliti – ricostruiscono i magistrati – capisce che si deve limitare a fare il “cane di mandria” e non “il potestà”, come pontificato da Paolo Romeo.

A riabilitarlo agli occhi dell’opinione pubblica ci pensa il falso attentato al Comune di Reggio Calabria del 6 ottobre 2004, che lo trasforma in poche ore in stellina dell’antimafia. Una bomba senza innesco né timer, dunque incapace di esplodere, viene trovata nei bagni di un’ala del Comune. Tre informative del Sismi nel giro di poche ore ne svelano l’esistenza, quindi indicano l’orario della presunta esplosione, per poi segnalare Scopelliti come obiettivo.

Le firma tutte l’ex numero 2 dell’Aise, Marco Mancini, in quel periodo di casa a Reggio Calabria, sulle tracce di un presunto traffico di esplosivo che dalla ‘Ndrangheta porterebbe ad Al Qaeda e mai nessuna indagine ha confermato. In compenso, in quei mesi i “rinvenimenti” si susseguono. Ma il tritolo sequestrato, si è scoperto di recente, era identico a quello proveniente dalla Laura C, la nave militare affondata di fronte alle coste calabresi, diventata per decenni l’arsenale personale dei clan. E medesima origine aveva quello usato per il finto ordigno ritrovato in Comune.

Già all’epoca qualcuno lo aveva scoperto, ma quelle informative sono rimaste nei cassetti. Stesso destino ha subito la nota investigativa che suggeriva di scavare in quella terra di mezzo fra ‘ndrangheta e settori dell’eversione nera per scovare chi di quella bomba sapeva. Carte che passavano tutte – ha svelato un’informativa recentissima – dall’occhio vigile di Vincenzo Speranza, all’epoca questore, in seguito nominato da Scopelliti commissario all’emergenza rifiuti. “È la prima persona entrata in Comune e che rinvenne l’ordigno”, ha messo di recente a verbale uno degli investigatori dell’epoca, mentre uno degli artificieri ha aggiunto “mi stupì la presenza di elementi del Sisde”.

Terra di spioni e barbe finte, Reggio Calabria. Terra in cui nessuno si stupisce che l’ex direttore del Sismi, Niccolò Pollari, finisca a insegnare diritto tributario all’Università, o che i servizi fino a non molto tempo fa avessero sede e uffici in un palazzo privato, lautamente pagato ad una delle grandi famiglie della borghesia reggina con più di una toga nell’albero genealogico. È la calmeria di Scirocco, che al massimo fa fare spallucce e alimenta chiacchiere pigre.

La stessa che fuori stagione sembrava avvolgere la città mentre finte bombe creavano carriere e affari veri. Con il fuso orario di quasi vent’anni, i pezzettini sono stati messi in fila adesso; approfondimenti investigativi potrebbero esser in corso. All’epoca, neanche si immaginavano. Reggio si specchiava nel suo “chilometro più bello d’Italia”, si vendeva come una cartolina e quell’immagine posticcia voleva preservarla a tutti i costi. Omettendo, nascondendo, spostando quello che non si doveva vedere, sapere, considerare. Criminalizzando chi provava a denunciare, ragionare, approfondire. Le tossine però sono rimaste in circolo. A partire da Arghillà Nord.

Un rogo nel quartiere Arghillà di Reggio Calabria
Un rogo nel quartiere Arghillà di Reggio Calabria  

Il tappeto della città

Che ci si stia avvicinando, lo si capisce dall’odore. Un muro solido di immondizia accumulata, abbandono, miseria. Il quartiere occupa la sommità di una collina, dai piani più alti dei palazzoni scrostati sembra quasi di potersi tuffare direttamente nello Stretto. Ma se si guarda giù dalle finestre si vedono solo cataste di spazzatura, auto bruciate o smontate, degrado. Non c’è una scuola ad Arghillà Nord, neanche una palestra, una biblioteca, un parchetto. Anche i negozi si contano sulle dita di una mano.

“Non mi era mai capitato. Qui la salute è considerata un lusso” dice Lino Caserta, medico e fondatore dell’ambulatorio solidale Ace. Nella provincia in cui l’attesa media per un’ecografia della tiroide è di 151 giorni e quella per un ecocardiogramma di oltre 130, la struttura è nata per un’esigenza molto semplice: fornire servizi essenziali che il pubblico non dà. E si basa su un principio altrettanto elementare: chi può paga, chi no viene assistito comunque. Ma non si limita a tappare le falle di un sistema sanitario sottodimensionato rispetto all’utenza naturale.

Negli anni l’Ace è diventato centro di ricerca epidemiologica, realtà che ha permesso a giovani medici, infermieri, amministrativi di non andare via alla ricerca di lavoro, fucina di una nuova concezione della salute. Che va oltre la soluzione della patologia specifica. È tutela del benessere, che passa ovviamente dalla prevenzione ma anche da un’ecologia di vita che ha a che fare con lo spazio urbano, le condizioni abitative, la possibilità di accedere a servizi che vanno dalla cultura allo sport. Ecco perché sempre Ace ha messo in piedi un parco della conoscenza, dove tutto si recupera, persino l’acqua piovana, necessaria per ripristinare antichi vigneti e orti biologici. Ecco perché Ace tanto ha fatto pressione sul Comune da riuscire a farsi concedere gli spazi necessari per aprire un ambulatorio anche ad Arghillà. “Ma non mi aspettavo fosse così difficile”, ammette il dottor Caserta.

“Da qualche tempo c’è qualche ragazzina che usufruisce del servizio di assistenza psicologica, qualcuno si inizia a rivolgere a noi per qualche visita, ma ancora è complicato”. È difficile far passare l’idea che tutto sia gratuito, che la salute sia un diritto, in un quartiere in cui lo Stato ha solo la faccia dei “bagarò”, i poliziotti che si presentano ciclicamente per retate e posti di blocco. “Abbiamo visto decine di adolescenti senza neanche le vaccinazioni di base – registra Caserta – E non per ragioni ideologiche, ma perché le famiglie non sanno di averne diritto o non se ne curano”.

Non è prerogativa esclusiva di Arghillà. Nella regione che dalla sera alla mattina ha chiuso diciotto ospedali per tentare, senza neanche riuscirci, di ripianare la voragine finanziaria nei conti della sanità, sono in tanti a non avere accesso alle cure. I dirigenti che quel piano l’hanno pensato invece hanno fatto carriera. Consigliere di Scopelliti ai tempi di quel piano che ha privato pezzi interi di Calabria di assistenza sanitaria, Gianluigi Scaffidi nel tempo ha cambiato bandiera, si è riscoperto grillino, ha lavorato gomito a gomito con la deputata Dalila Nesci, che inutilmente ha tentato di catapultarlo alla guida dell’Asp di Vibo Valentia, per poi trovare posto al Grande ospedale metropolitano di Reggio Calabria. Come sindacalista prima, come “consulente” non retribuito dell’allora commissaria Iole Fantozzi nel primo anno di pandemia poi. In quel periodo si verifica una circostanza curiosa: mentre i reparti boccheggiavano e ovunque in Italia si cercavano medici, il Gom mandava a casa i suoi primari più esperti. Chi è rimasto, è stato costretto a raddoppiare gli sforzi.

Scaffidi invece ha fatto carriera. Catapultato alla guida dell’Asp di Reggio Calabria, pozzo senza fondo dopo anni in cui le fatture venivano pagate anche due o tre volte a ditte di mafia e non, di recente è tornato al Gom da direttore generale, a dispetto delle proteste dei sindacati che contestano la legittimità della nomina.

Nel frattempo, nei reparti si fa quel che si può. Spogliati da oltre dieci anni di blocco del turn over, adesso iniziano a respirare grazie a qualche assunzione, ma rimangono sottodimensionati rispetto ad un’utenza potenziale che abbraccia il territorio di un’intera provincia. Ma a dispetto di numeri e mezzi, sopravvivono anche alcune eccellenze. Inevitabilmente c’è da attendere, chi può si rivolge al privato, chi non può aspetta o spesso rinuncia. Ad Arghillà sono tanti.

“In ospedale molte ci vanno solo per partorire e sono ragazzine”, dice Paolo Cicciù, che da presidente del Csi nel quartiere porta avanti un progetto di recupero dei ragazzi tramite lo sport. Quattro anni fa aveva Action Aid dietro le spalle, poi quel laboratorio è finito, i soldi pure ma lui non se l’è sentita di mollare. “Uno degli adolescenti che seguo è riuscito ad ottenere una borsa lavoro. In un paio di mesi si è trasformato. Puntuale, preciso, pur di presentarsi pulito tiene da parte bottiglie piene d’acqua e si lava con quelle. O approfitta degli allenamenti per fare finalmente una doccia calda”. Perché non solo il riscaldamento, ma anche l’acqua per molti è un lusso ad Arghillà. Come l’accesso all’istruzione. “Se questi ragazzi hanno una possibilità, una prospettiva, si possono salvare. Ma al momento è un lusso per pochissimi”, si arrabbia Cicciù, che all’ennesimo tavolo permanente messo in piedi dal Comune protesta, racconta di centinaia di bambini che alle elementari già abbandonano la scuola, che vivono di piccolo spaccio fra i lotti e imparano presto che di reati si può campare. Denunce che si aggiungono a quelle del comitato di quartiere, che da anni prova a recuperare genitori e figli con doposcuola, attività pomeridiane, assistenza, sportelli, persino – è in cantiere – la spesa sospesa, e di altre associazioni che con più o meno continuità intervengono sul territorio. Refoli di vento che resistono alla calmeria di Scirocco. Ma la cappa è pesante, avvolge Arghillà da oltre vent’anni, la nasconde e la confina nelle proprie miserie. Anche Cocò Morelli veniva da lì.

“Io non sono italiano, sono ‘ndranghetista” spiegava ai suoi, fiero dell’investitura ricevuta dal boss Giovanni Rugolino in persona. Perché i clan ci hanno visto lungo. E oggi pezzi della comunità rom vengono usati come carne da cannone per i “lavori” più rischiosi: spaccio di droga, gestione degli arsenali, danneggiamenti. Cocò Morelli era uno di quelli che aveva messo a disposizione dei clan un piccolo esercito. “Ho zingari e non zingari, non quelli che vedi qua ah? Ho il numero di persone, zingari, in tutti i posti”, si vantava. E dei servizi offerti ai rampolli dei clan si beava. “Devo venire qui a fare un favore a Mico – lo sentono dire intercettato – Ancora uno, due impegni gli devo portare avanti”.

La Repubblica del favore

Non si tratta di un caso isolato, per la ‘Ndrangheta è un modello di intervento. Si basa sul consenso, che è cemento armato per il dominio, con strategia di costruzione che cambia a seconda dell’interlocutore o del gruppo sociale. Un lavoro lecito, magari nel pubblico o para-pubblico, una piccola attività, una fornitura, sono armi buone per fidelizzare interi gruppi familiari. Consulenze e nomine, la leva per entrare dalla porta principale nel mondo dei professionisti. I pacchetti di voti, lo strumento per irretire i politici di ogni livello, dal consigliere regionale – Alessandro Nicolò, Domenico Creazzo, Franco Morelli, solo per citarne alcuni – a parlamentari come l’ex senatore Marco Siclari. La garanzia di zero concorrenza, un jolly per imprenditori e palazzinari. La strategia è sempre la medesima, le inchieste degli ultimi vent’anni lo dimostrano, cambiano solo i nomi dei protagonisti.

La città tollera, si adegua, si rassegna. E la cappa che il sistema stende diventa alibi per piccole clientele, piccole miserie. Il consigliere Nino Castorina che manda i suoi a trafficare con schede elettorali di anziani per ottenere una vittoria ampia. Il sindaco sospeso Giuseppe Falcomatà che pasticcia con una delibera per concedere in comodato d’uso gratuito una preziosa palazzina liberty all’amico imprenditore che in campagna elettorale gli aveva prestato gli spazi per mettere su il comitato. La rete composita – dalla rettrice dell’Università della Basilicata Aurelia Sole all’architetta di grido Laura Thermes, dalla deputata Enza Bruno Bossio al professore di liceo – che alle porte del rettore Zimbone e del suo predecessore Catanoso bussava per un posto da ricercatore, da prof, persino per accedere a un corso.

Comune di Reggio Calabria. Dal 19 novembre 2021 è affidato al facente funzione Pierpaolo Brunetti, dopo la sospensione del sindaco eletto Giuseppe Falcomatà (foto Marco Costantino) 
Comune di Reggio Calabria. Dal 19 novembre 2021 è affidato al facente funzione Pierpaolo Brunetti, dopo la sospensione del sindaco eletto Giuseppe Falcomatà (foto Marco Costantino)

Nella repubblica del favore c’è spazio per tutti perché i confini nella calmeria di Scirocco sfumano.  E si torna a sciamare nei lidi d’estate. A dispetto di un regolamento comunale che lo vieta, continuano ad essere affidati in proroga anche a imprenditori (o chi per loro) che – racconta intercettato il boss interessato – si sono precipitati a versare al clan il consueto “regalo di Natale” dopo aver scoperto che un’altra famiglia lo aveva trattenuto per sé. Storia di dominio pubblico, ma quei locali continuano ad essere pieni. E poco importa che siano tornati a imperversare i rampolli dei clan che anni fa hanno terrorizzato la movida con raid in stile “Arancia meccanica” per affermare che il centro città è zona degli Arcoti (così chiamati perché basati nel quartiere Archi). Per loro un tavolo riservato c’è sempre, insieme ad una bottiglia di Magnum fresca. E fin troppa fila di aspiranti ospiti.

Torneranno i tifosi allo stadio entusiasti per la folle avventura dell’imprenditore lametino Felice Saladini, che ha rilevato la società, promesso legalità e saldo dei debiti, giurato di perseguire obiettivi ambiziosi, magari anche la massima serie. Quando è arrivato lo hanno acclamato come un nuovo messia. Ma senza mai rinnegare quel Luca Gallo per il quale sono anche scesi in piazza.

Lo Stadio Oreste Granillo
Lo Stadio Oreste Granillo (agf)

Ogni estate torneranno emigrati ed expat, fuggiti da una città in cui la disoccupazione giovanile rivaleggia con quella degli anni Cinquanta, senza che dal territorio arrivi nulla di diverso da giaculatorie sui cervelli in fuga.

A dispetto di pesanti condanne e accuse, torneranno in Consiglio comunale – lo hanno già annunciato – Castorina e Falcomatà. “Le responsabilità penali sono di competenza dei magistrati, quello che al sindaco sospeso non si può perdonare – dice Saverio Pazzano, unico consigliere dell’opposizione di sinistra – è di aver condannato un’intera amministrazione comunale all’inerzia in attesa del suo ritorno”.

Potrebbe succedere nei primi mesi del 2023, se non prima. Ci sarà il Pnrr da gestire “e sarà una disgrazia per questa città non solo per gli appetiti mafiosi che si scateneranno”, tuona l’ex vicesindaco Tonino Perna, defenestrato a pochi minuti dalla condanna di Falcomatà e sostituito con Paolo Brunetti, consigliere comunale di Italia Viva e uomo di fiducia del sindaco appena sospeso.

Il sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Falcomatà durante il convegno "Il contrasto alle mafie". Roma, 25 marzo 2015
 

“Quei soldi creeranno solo nuove incompiute”, dice il professore che da numero due dell’amministrazione ha scoperto che la distesa di pannelli solari piazzati nei pressi del porto è mero elemento decorativo, perché non collegati agli impianti. Che molti beni comunali non sono neanche accatastati. O che  il lungomare della periferia sud è stato strappato all’abbandono e al dominio del clan Labate, che lì teneva le stalle e allenava i cavalli per le corse, dimenticando però di collettare le fogne. Il mare che si allunga sotto non è balneabile. Nella calmeria di Scirocco i pescatori stanno lì a guardarlo, nella speranza di vedere increspature all’orizzonte, promessa di un ritorno del vento.

Nonostante Tonino Perna affermi senza sbagliare troppo che “i presidenti delle associazioni del terzo settore sono gli stessi da trent’anni”, i refoli in città si avvertono. Resistono. Un gruppo di cittadini si è messo insieme e ha riportato in vita le antiche scale della Giudecca, sommerse dai rifiuti. Da libro è diventato prima progetto audiovideo, poi spazio culturale “Cartoline rock”, che grazie a un pugno di artisti, fotografi, adesso è un circolo dove si presentano libri, si organizzano dibattiti e rassegne. “E finanziamenti pubblici non ne vogliamo”, dicono. Proprio sotto Arghillà c’è il Parco Ecolandia, da anni snodo di progetti solidali e rassegne culturali internazionali. C’è il museo archeologico nazionale, che custodisce i Bronzi di Riace, patrimonio dell’umanità che il mare ha restituito esattamente 50 anni fa.

Roma è lontana. A volte è evocata come futura panacea di tutti i mali, altre come capo espiatorio. I ministri passano – solo negli ultimi sei mesi, Luciana Lamorgese e Marta Cartabia – promettono, vanno via. La cappa rimane.

Leggenda vuole che lo Scirocco sia un vento pericoloso, che fa impazzire alcuni, che provoca ribellioni. Ma a Reggio Calabria c’è ancora chi aspetta che soffi impetuoso. Che spazzi via la calmeria.