di Patrizia De Rubertis
Fonte: Il Fatto Quotidiano
L’emergenza sanitaria innescata dal coronavirus si è tradotta in una corsa disperata ad aumentare i posti letto negli ospedali. Da quattro settimane è partito il piano per aumentare la capacità delle terapie intensive che oggi sono arrivate a 8.370 posti, il 64% in più rispetto all’inizio dell’emergenza. Per dare l’idea della pressione sul sistema sanitario, negli ultimi giorni 59 pazienti sono stati trasferiti dalla Lombardia in altre Regioni del Centro-Sud per evitare il collasso. E questo grazie alla riconversione lampo di 71 ospedali in strutture dedicate solo ad affrontare i malati di Covid-19. Questa corsa mostra i limiti del sistema sanitario nazionale dopo anni di definanziamento (minori risorse rispetto agli stanziamenti assicurati e all’aumento dei prezzi sanitari, che di fatto si traducono in tagli reali). Nell’ultimo decennio, secondo le stime della Fondazione Gimbe, al Ssn sono stati sottratti 37 miliardi (25 solo nel 2010-2015), mentre è aumentata la spesa verso la sanità privata, che però si rivolge a prestazioni più remunerative e mostra tutti i suoi limiti in caso di emergenza sanitaria.
A rimetterci di più sono stati i posti letto ospedalieri. Secondo il “Rapporto Sanità 2018 – 40 anni del Servizio Sanitario Nazionale” del Centro Studi Nebo, si è passati dai 530.000 posti letto del 1981 (di cui 68 mila dedicati all’area psichiatrica e manicomiale) ai 365.000 del 1992, dai 245.000 del 2010 fino ai 191mila del 2017, ultimo dato disponibile. In rapporto al numero di abitanti, siamo passati da 5,8 posti letto ogni mille abitanti del 1998, ai 4,3 nel 2007 ai 3,6 nel 2017.
Stando ai dati del ministero della Salute, rielaborati da Anaao Giovani (il sindacato dei medici), nel 2010 l’assistenza ospedaliera si è avvalsa di 1.165 istituti di cura, di cui il 54% pubblici e il 46% privati, oggi il numero è sceso a mille unità, ma a diminuire sono state di più le strutture pubbliche (che ora sono il 51,8% del totale) rispetto alle delle cliniche private accreditate (48,2%). Queste ultime dislocate soprattutto in Lazio (124), Lombardia (72) e Sicilia e Campania (58). Sono state le grandi riforme di contenimento della spesa sanitaria del 2012 (governo Monti) e del 2015 (governo Renzi) a portare alla chiusura dei presidi ospedalieri più piccoli, spesso riconvertendoli in strutture alternative: negli ultimi 10 anni si sono creati 2.000 presidi in più per l’assistenza territoriale residenziale e 700 per l’assistenza semiresidenziale, mentre i posti letto diminuivano. Un tentativo malriuscito di efficientare il sistema e consentire assistenza fuori dagli ospedali, anche a causa del gigantesco definanziamento (la spesa sanitaria è inferiore a tutti i grandi Paesi Ue).
Nel 2010 il Servizio sanitario nazionale (Ssn) disponeva di 244.310 posti letto per degenza ordinaria (acuti e post-acuti), di cui il 71,8% (175.417 posti letto) erano in carico al pubblico e il 28,2% (68.893) al privato, 21.761 posti per day hospital (quasi totalmente pubblici) e 8.230 posti per day surgery (l’80% pubblici). Nel 2017, invece, i posti letto sono scesi a 3,6 ogni mille abitanti. In tutto erano 211.593 per degenza ordinaria di cui il 69,5% (147.035) in carico al Ssn, mentre il 30,5% (64.558) al privato (di questi, il 23,3% nelle strutture accreditate), 13.050 posti per day hospital, quasi tutti pubblici (89,4%) e di 8.515 posti per day surgery in grande prevalenza pubblici (78,2%). La Regione con il maggior numero di posti letto era la Lombardia con 8.384, seguita da Lazio (7.168) e Campania con 5.347.
È in un momento di emergenza che vale la pena ricordare cosa è stato sottratto al servizio sanitario, considerato tra i migliori a livello mondiale. In queste pagine leggete una (incompleta) rassegna di un decennio di tagli.
– Lombardia
A incassare i soldi pubblici sono gli imprenditori privati
Qui, nella Regione di Roberto Formigoni e poi dei presidenti leghisti, è avvenuta la forma più completa di passaggio dalla sanità pubblica al sistema misto in cui pubblico e privato sono equiparati. Il budget annuo per la sanità è di 19,5 miliardi di euro. A pagare è sempre la Regione, con soldi pubblici, ma a incassare sono sempre di più, di anno in anno, gli imprenditori privati della sanità, tra cui due colossi: il San Raffaele (gruppo San Donato della famiglia Rotelli) e Humanitas (gruppo Rocca). Sono via via diminuite le risorse per gli ospedali pubblici, sono stati chiusi o “riconvertiti” tanti piccoli ospedali, sono più che dimezzati i posti letto. In Lombardia il sorpasso è già avvenuto: la sanità privata incassa più di quella pubblica. Gli ultimi dati del 2017, ancora non lo rilevano, ma già dicono che il privato incamera in proporzione più risorse del pubblico. Su 1,441 milioni di ricoveri, 947 mila (il 65%) sono negli ospedali pubblici, 495 (il 35%) nelle strutture private. Ma il privato incassa 2,153 miliardi di euro sui 5,4 totali (il 40%), contro i 3,271 del pubblico. Dunque il 35% dei ricoveri incassa il 40% delle risorse impegnate dalla Regione.
Gianni Barbacetto
– Veneto
Nel Veronese quasi tutte le strutture dismesse o ridotte
Nel 2013 i posti letto negli ospedali pubblici erano 14.576, di cui 767 di settori altamente specializzati e 240 extra Veneto (per pazienti provenienti da altre Regioni). Nel 2019 sono calati a 14.065 unità, di cui 754 nell’alta apicalità e 85 extra-Veneto. Nelle strutture private sono passati dai 2.942 del 2013 (di cui 487 destinati all’extra-Veneto) a 3.115 (163 in più in totale, di cui 100 posti extra-Veneto). Ma i posti pubblici tagliati negli ultimi 15 anni sono di più. Lo dimostra il fatto che la riapertura da parte della Regione per l’emergenza Coronavirus di 5 ospedali chiusi (e in parte riconvertiti) consentirà di ricavare 740 nuovi posti letto per malati ordinari, tutti in provincia di Verona. Nell’elenco degli ospedali dismessi, ridotti o riconvertiti in passato ci sono anche Malo (Vi), Noventa Vicentina, Asolo (Tv), Dolo (Ve), Piove di Sacco (Pd), Adria (Ro), Bovolone, Nogara e Malcesine nel Veronese. L’ospedale di Santorso, nell’Alto Vicentino, inaugurato nel 2013 con un oneroso project financing (realizzato anche da imprese coinvolte nello scandalo Mose) ha portato alla chiusura (e parziale riconversione) di due ospedali a Schio e Thiene.
Giuseppe Pietrobelli
– Lazio e Umbria
I nosocomi svuotati fanno gola ai palazzinari e manca personale
Sedici ospedali chiusi, 3.600 posti letto perduti e il 14% del personale uscito senza turnover. Sono le macerie della sanità del Lazio dopo 10 anni di commissariamento: Zingaretti ne ha già annunciato l’uscita, ma si attende il decreto del governo. Il piano di rientro si deve agli oltre 10 miliardi di debito registrati alla fine del 2009. A chiudere ospedali storici come il Forlanini – destinato alla Fao – o il San Giacomo, su cui hanno messo gli occhi i grandi gruppi immobiliari, ma anche nosocomi di provincia come Frascati, Marino, Guidonia e Monterotondo. Altri, come il San Camillo, San Filippo Neri e Sant’Eugenio hanno subito ridimensionamenti. In totale, ci sono oggi ci sono 56 strutture aperte contro le 72 del 2011. Oggi il 40% della sanità è composta dai privati convenzionati, mentre oltre 20.000 infermieri arrivano da società interinali e cooperative. In Umbria i conti non tornano da anni, non tanto per il numero degli ospedali quanto per la carenza di personale. Con una popolazione inferiore al milione ci sono due reparti di cardiochirurgia e di neurochirurgia uno a Perugia e uno a Terni in cui lavorano sempre meno persone.
Vincenzo Bisbiglia
– Sicilia e Sardegna
Tanti piccoli presidi, zero servizi Così godono i grandi poli privati
La politica siciliana non vuole chiudere e continua a ripetere che l’obiettivo è razionalizzare. È così almeno dal 2006, anno in cui venne accertato un disequilibrio nei conti della sanità da 800 milioni di euro. Da allora ogni governo ha varato il suo piano di riordino sforbiciando posti letto e servizi. Tanti presidi negli angoli più sperduti dell’Isola rimangono aperti, garantendo voti, ma con servizi ai minimi termini. Alcuni ospedali vengono pure aperti. A Catania il San Marco ha preso il posto di tre nosocomi cittadini. Ideato per 1.229 pazienti, e con costi lievitati da 94 a 250 milioni di euro, è stato ridimensionato prima del taglio del nastro a 458 posti. Il quadro regionale ha il segno meno anche per i posti letto. Quelli riservati ai pazienti acuti nel 2009 erano 15.410 adesso sono poco meno di diecimila. Entro il 2020 dovrebbero chiudere 24 presidi territoriali di emergenza. In Sardegna, invece, la riorganizzazione della rete ospedaliera continua a creare disagi e malcontento nella popolazione: si aprono grandi ospedali privati con finanziamenti pubblici. È il caso del Mater Olbia.
Dario De Luca
– Puglia e Basilicata
Meno presenza sul territorio, abbandonate le zone montuose
Il riordino ospedaliero ha riconvertito numerosi ospedali del territorio. E se formalmente non è una chiusura, nei fatti è certamente una drastica riduzione dei servizi. I tagli alla sanità pugliese sono cominciati quasi 20 anni fa con Raffaele Fitto e sono proseguiti con Nichi Vendola. La Giunta Emiliano nel luglio scorso ha chiuso la procedura di riordino con la trasformazione in cosiddetti “Presidi territoriali assistenziali” delle strutture ospedaliere ancora in funzione. Un esempio emblematico è l’ex ospedale di Alberobello nel quale ora è attivo però solo un presidio di primo intervento e nei mesi scorsi, dopo una petizione dei cittadini, è stato ampliato il servizio di guardia medica. Un’ala della struttura, invece, è ora una struttura privata. Le strutture declassate sono circa una ventina. Il piano prevede invece 5 ospedali “Hub” di eccellenza e 13 strutture di “I livello”, dove sono previsti esclusivamente il pronto soccorso e alcuni reparti. In Basilicata, che ha subito nel corso degli anni la chiusura dei micro-centri che servivano le zone montuose, oggi a gran voce si richiede la riapertura degli ospedali di Tinchi, Stigliano e Tricarico.
Francesco Casula
– Toscana e Marche
Prima la mannaia, adesso la “corsa” a riaprire per il virus
In Toscana, negli ultimi dieci anni sono stati chiusi 5 ospedali, pur aprendone altri 4 più piccoli con un saldo negativo di posti letto pari a circa 450: tra il 2013 e il 2014 sono stati chiusi i nosocomi di Lucca di Campo di Marte, il vecchio ospedale di Prato e l’ospedale del Ceppo a Pistoia, mentre nel 2016 quelli di Massa e Carrara che poi si sono uniti nel Noa di Massa. Ovvero, circa 2mila posti letto per quattro province che contano circa 1,1 milioni di abitanti. In questi giorni il governatore Enrico Rossi ha riaperto le porte dei vecchi ospedali dismessi per recuperare 280 posti di terapia intensiva. “Ne stiamo cercando altri” dice al Fatto l’assessore alla sanità toscana, Stefania Saccardi. “Nessuno si aspettava che arrivasse il coronavirus – spiega il sindaco di Prato, Matteo Biffoni – per questo riapriamo i vecchi ospedali chiusi”. Le Marche, invece, sono tra le Regioni che ha pagato lo scotto più alto dal taglio imposto ai mini-ospedali nel corso degli ultimi 10 anni: ne sono stati chiusi 13 ospedali e gli altri ogni anno perdono medici, infermieri, macchinari, unità operative complesse.
Giacomo Salvini
– Emilia-Romagna e Piemonte
Due Regioni in prima linea, devastate da anni di austerità
Dal 2000 al 2016 negli ospedali dell’Emilia-Romagna i posti letto sono diminuiti di oltre 5 mila unità. Nel 2000 i letti ospedalieri erano 22.515, di cui 2.352 di day hospital. Dal 2000 al 2018 i posti letto dei nosocomi bolognesi Sant’Orsola, Maggiore e Rizzoli sono diminuiti progressivamente di quasi 600 unità. Nelle strutture modenesi nel 2016 sono stati tagliati 110 posti letto day-hospital: 53 negli ospedali Ausl, 47 al Policlinico di Modena e 10 dell’ospedale di Sassuolo. A Piacenza, considerando anche le strutture private convenzionate, la rete ospedaliera contava 1.146 posti letto totali poi ridotti a 1.100 per rispettare lo standard nazionale. In Romagna c’è stata una riduzione di 100 posti letto. La cura dimagrante imposta al Piemonte, uscito dal piano di rientro nel 2017 (ci era entrato nel 2010), si è fatto sentire: dal 2012 al 2018 sono stati chiusi 12 ospedali. Ne restano aperti 49. Un taglio drastico che si associa a quello del personale: dal 2009 al 2017 si sono persi 4mila dipendenti che porta a un taglio del 7% totale degli addetti nelle strutture ospedaliere.
Sarah Buono
– Abruzzo e Molise
Lacrime e sangue per il Ssn, ma i convenzionati prosperano
Per nove anni, fino al 2016, la sanità abruzzese è stata commissariata. Gli interventi di razionalizzazione dell’ultimo decennio hanno ridimensionato il numero degli ospedali, soprattutto per quel che riguarda quelli pubblici. La dotazione complessiva, conteggiando anche quelli delle cliniche private accreditate, è intorno ai 4500 posti letto: la stragrande maggioranza per i pazienti acuti. La riabilitazione resta ad appannaggio di tre strutture private: Villa Serena con 367 posti letto, Pierangeli che ne vanta 161 e Spatocco a quota 111. I nosocomi pubblici più importanti sono invece il San Salvatore dell’Aquila (400 posti letto), il SS. Annunziata di Chieti (circa 500), lo Spirito Santo di Pescara (quasi 700) e il Mazzini di Teramo (478 posti). Diverse le piccole strutture ospedaliere demansionate, riclassificate e chiuse per interi reparti: da Penne a Popoli, da Atri a Giulianova, passando per Sulmona. Il Molise, 300mila abitanti, ha 7 strutture ospedaliere pubbliche. A 12 anni dall’avvio del Piano di rientro, i report mostrano ancora debiti milionari, mentre i costi sono saliti per supportare la sanità privata: il Neuromed e il Gemelli.
Maurizio Di Fazio
– Liguria
Tagli i posti statali? Ci pensa il mercato (record a La Spezia)
Più privato e meno pubblico. Il trend nella sanità ligure è chiaro: dal 2014 al 2018 i posti letto nelle strutture pubbliche sono scesi a 5.252 con la perdita di 299 unità. Nel frattempo il privato è passato a 444 unità con una crescita di 164. Nella Asl di La Spezia i posti letto privati sono aumentati del 420 per cento. Dal 2014 intanto è calato di 988 unità anche il numero dei dipendenti ospedalieri: -72 medici, -384 infermieri e -532 dipendenti di altre categorie. Come ricorda un approfondito dossier sui “Mali della Sanità in Liguria” realizzato da Linea Condivisa, le provincie di Imperia e La Spezia hanno soltanto 2,6 e 2,8 posti letto in ospedale per ogni mille abitanti (a Bolzano, per dire, sono 3,98). Soltanto nella provincia di Genova dopo il 2000 hanno chiuso gli ospedali Cogoleto, Pegli, Rivarolo, Busalla, Bolzaneto, Recco, Camogli. Altre strutture, classificate come ospedali, erogano prestazioni ambulatoriali: Pontedecimo, Sestri Ponente e Arenzano. E c’è la contestatissima operazione di ricostruzione dell’ospedale Galliera che fa capo alla Curia: la Regione dovrebbe finanziare con circa 50 milioni la realizzazione dei nuovi padiglioni.
Marco Franchi
– Campania e Calabria
La follia degli impianti “abusivi” e le chiusure nel tacco d’Italia
In Campania c’è una discrasia enorme tra i posti letto che risultano sulle carte e quelli effettivamente in funzione. “Per l’ospedale di Piedimonte si ragionava di 150 posti letto in generale. Per poi scoprire che ce n’erano attivi solo 30”, afferma la capogruppo M5S, Valeria Ciarambino. La maggior parte degli ospedali è priva dell’autorizzazione sindacale all’esercizio. In pratica abusivi. Chiusi a Napoli gli ospedali Ascalesi, Annunziata, San Gennaro e Incurabili, semisvuotati gli ospedali Loreto Mare e San Paolo, chiusi o fortemente depotenziati gli ospedali di Pollena Trocchia, Scafati, Agropoli e Roccadaspide. Nel 2018 esistevano 18.204 posti letto per la rete d’emergenza, da far salire a 19.841. In Calabria, tra riordini e piani di rientro, sono scomparsi e declassati decine di ospedali. È successo in provincia di Reggio con gli ospedali di Siderno, Scilla, Palmi, Oppido Mamertina e Taurianova. Ma anche nelle province di Catanzaro (ospedale di Chiaravalle), Vibo Valentia (ospedale di Soriano), Crotone (ospedale Mesoraca) e Cosenza (ospedali di Cariati, Lungro, Mormanno, Praia a Mare, San Marco Argentano e Trebisacce).
Vincenzo Iurillo e Lucio Musolino