Strage piazza Fontana: 50 anni tra depistaggi, innocenti puniti e terroristi (fascisti) liberi

Il 12 dicembre del 1969 una bomba neofascista uccideva 17 persone a Milano. I responsabili, protetti da settori dello Stato, l’hanno fatta franca

di Paolo Biondani

Fonte: L’Espresso

Una chiesa ottagonale, molto bella, al margine del parco di una storica villa veneta, accanto all’antica via Postumia. Il muro di cinta della proprietà, in pietre chiare contornate da strisce di mattoni, prosegue lungo una stradina laterale, per circa 200 metri. Alla fine c’è un casolare bianco, con la facciata esterna senza finestre. Il terrorismo politico in Italia è nato qui. Le bombe nere che nel 1969 hanno per la prima volta insanguinato la nostra democrazia sono state fabbricate in questo piccolo rustico alla periferia del comune di Paese, fra Treviso e Castelfranco Veneto. Dove oggi i vicini sono increduli, ignari di questo pezzo di verità ormai accertata da definitive sentenze giudiziarie. Gli stessi proprietari hanno scoperto solo con le ultime inchieste di aver ospitato, nel casolare dietro la loro villa, il covo segreto dei terroristi neri.

Dalla strage di piazza Fontana sono passati 50 anni. Mezzo secolo di giustizia negata, depistaggi dei servizi, innocenti perseguitati, processi scippati, colpevoli impuniti. Il 12 dicembre 1969 una bomba in una banca di Milano uccide 17 innocenti e fa precipitare l’Italia nel terrorismo. Prima di spegnersi il giudice Gerardo D’Ambrosio spiegò così, all’Espresso, quella “strategia delle tensione”: «Alla fine degli anni ’60 alcuni settori dello Stato, e mi riferisco al servizi segreti, al Sid, ai vertici militari e ad alcune forze politiche, pianificarono l’uso di giovani terroristi di estrema destra per fermare l’avanzata elettorale della sinistra, che allora sembrava inarrestabile. Le bombe servivano a spaventare i moderati e l’effetto politico veniva amplificato infiltrando e accusando falsamente i gruppi di estrema sinistra»

Prima e subito dopo la strage di piazza Fontana, gli apparati di Stato rafforzano la strategia arrestando decine di anarchici, poi tutti assolti. Il loro ipotetico arsenale, localizzato (da un infiltrato neofascista) a Roma sulla via Tiburtina, si rivela solo una buca vuota. Agli anarchici milanesi non viene trovato neanche un petardo, neanche una fionda. Solo quando i giudici di Treviso e Milano incriminano i neofascisti veneti, arrivano le prime prove vere, con i riscontri più pesanti: gli arsenali di armi ed esplosivi. Già nel primo, storico processo di Catanzaro, il neonazista mai pentito Franco Giorgio Freda e il suo complice Giovanni Ventura, morto in libertà dopo la fuga in Argentina, vengono condannati in tutti i gradi di giudizio per ben 17 attentati del fatale 1969. Bombe all’università di Padova (15 aprile), alla fiera e alla stazione di Milano (25 aprile, 10 feriti). Bombe nei tribunali di Torino, Roma e Milano (12 maggio e 24 luglio). Bombe su dieci treni delle vacanze (notte tra l’8 e 9 agosto 1969, venti feriti). Per l’eccidio di piazza Fontana, entrambi vengono assolti in appello, per insufficienza di prove. E abbondanza di depistaggi, che costano una condanna definitiva per favoreggiamento a due ufficiali (piduisti) del Sid.

Anche le tante indagini successive si chiudono senza alcuna condanna, però alla fine convincono tutti i giudici, compresa la Cassazione, che Freda e Ventura erano colpevoli anche della strage di Milano, ma non sono più punibili perché ormai assolti. Nell’ultimo processo, concluso nel 2006, l’imputato più importante, il capo di Ordine nuovo nel Triveneto, Carlo Maria Maggi, segue la stessa sorte: condanna all’ergastolo in primo grado, assoluzione in appello e Cassazione, motivata dall’insufficienza dei riscontri alle accuse del pentito Carlo Digilio. «L’incoerenza più grave», per i giudici innocentisti, era proprio «il mancato ritrovamento del casolare di Paese»: la fabbrica delle bombe di Freda e Ventura.

Franco Freda e Giovanni Ventura
Franco Freda e Giovanni Ventura

La caccia al covo nero riparte con l’ultima indagine sulla strage di Brescia (28 maggio 1974, otto morti e 102 feriti) e sembra la trama di un giallo. L’unico indizio sono i ricordi del pentito. La chiesa sulla strada. Il muro in pietra. Il casolare senza finestre. Un rustico sullo sfondo, tra i campi. I primi inquirenti erano partiti dalla chiesa principale, nel centro di Paese, senza trovare nulla. A fare centro è un tenace ispettore capo della polizia, Michele Cacioppo: la chiesa descritta da Digilio è la cappella privata di villa Onesti-Bon. All’epoca la proprietà era gestita da Sergio Bon, morto nel 2004, che aveva affittato quel casolare retrostante proprio a Giovanni Ventura. Il terrorista, sulla sua agenda del 1969, aveva annotato “Digilio” e “Paese” accanto al nome di un avvocato di Treviso, Giuseppe Sbaiz. Sentito dal poliziotto, il legale chiude il cerchio: «Sergio Bon mi aveva incaricato di sfrattare Ventura, perché aveva visto che nascondeva armi nel casolare». Anche gli eredi di Bon confermano l’affitto all’editore trevigiano complice del padovano Freda.

Oggi il luogo è irriconoscibile. Il casolare è stato ristrutturato, ampliato e diviso in tre abitazioni. Ed è circondato da villette e palazzine. Una vicina con i capelli bianchi conferma però che «qui, 50 anni fa, era tutta campagna: c’era solo quel casolare». E dietro il parco c’è ancora il vecchio rustico che vedeva Digilio, ora nascosto da un labirinto di case.

Digilio, secondo le sentenze definitive, è un pentito a metà, che ha cercato di minimizzare le sue responsabilità nelle stragi. Felice Casson fu il primo magistrato a farlo condannare come terrorista e armiere di Ordine Nuovo, subordinato proprio a Maggi. Indagato a Milano, solo nel 1998 Digilio ammette di aver aiutato Freda e Ventura a fabbricare ordigni esplosivi. E confessa, in particolare, di aver preparato le bombe sui treni dell’agosto 1969 proprio nel casolare di Paese. Ventura replica di non averlo mai conosciuto: «Il nome di Carlo Digilio non mi dice assolutamente nulla». Invece lo ha anche pagato, perfino il giorno prima delle bombe sui treni, come dimostra una serie di assegni recuperati dall’ispettore Cacioppo, ne pubblichiamo uno in questa pagina. Il casolare di Paese diventa così un nuovo prezioso riscontro alle dichiarazioni di Digilio, che nel 2017 portano alla condanna definitiva di Maggi per la strage di Brescia. La sentenza riguarda anche piazza Fontana e conclude che, dal 1969 al 1974, le stragi hanno lo stesso marchio: Ordine nuovo. Ma se il terrorismo rosso era contro lo Stato, all’epoca gli stragisti neri erano dentro lo Stato. E sono stati protetti per anni da diversi apparati, scatenati sulla falsa pista anarchica di Valpreda e Pinelli, l’innocente precipitato da una finestra della questura. Mentre gli arsenali neri venivano nascosti.

L'assegno pagato da Ventura a Digilio...
L’assegno pagato da Ventura a Digilio datato 7 agosto ’69

Il primo si scopre subito dopo la strage di piazza Fontana. Il 13 dicembre Ventura si tradisce con un amico che vorrebbe reclutare, Guido Lorenzon: gli confida che la bomba di Milano non ha provocato l’atteso golpe, per cui lui e Freda programmano altri attentati sanguinari. Spaventato, Lorenzon ne parla a un avvocato che lo porta dal giudice Giancarlo Stiz, il primo a indagare sui terroristi neri. Il 20 dicembre 1969 viene perquisita la casa di Ventura a Castelfranco Veneto, dove spuntano «un fucile, una bomba a mano e un pugnale della milizia, mai denunciati». Lui nega tutto: mai fatto attentati o violenze, il “fucile da caccia” era del padre, la “granata” sarebbe «un cimelio di guerra custodito come oggetto ornamentale». Nella stessa casa, alla periferia di Castelfranco, vive ancora la sorella, Mariangela Ventura. È identica a lui. E non sente alcun bisogno di nascondersi: il cognome è sul campanello. «Non sarà mica qui per l’anniversario di piazza Fontana?». Indovinato. «Mio fratello è morto. Piazza Fontana è stata una tragedia, durata trent’anni, anche per la mia famiglia». Si figuri per le vittime. «Ora basta. Arrivederci». Peccato. La sorella fu una testimone seria: fu lei a consegnare ai magistrati la famosa chiave del Sid, che apriva tutte le porte del carcere di Monza, per far evadere Ventura nel 1973, quando era crollato confessando a D’Ambrosio tutti gli attentati del 1969, tranne la strage.

E l’arsenale di Paese? Dopo la prima perquisizione a casa, Ventura e Freda imboscano le armi e gli esplosivi. E avvertono subito i capi di Ordine Nuovo: non solo Maggi, ma anche Pino Rauti, il leader nazionale, arrestato per pochi giorni e poi prosciolto, quindi eletto parlamentare del Msi. Il casolare di Paese torna ai proprietari. E le indagini deviate dai servizi puntano sempre sulla pista anarchica. Che frana per caso, il 5 novembre 1971, quando si scopre un grosso arsenale nero in una soffitta di Castelfranco: cinque mitra, otto pistole, oltre mille cartucce, 27 caricatori, quattro silenziatori e una bandiera nera con il fascio littorio.

Qui, in piazza Giorgione 48, in un palazzo d’epoca di fronte al castello, vive ancora un signore di 78 anni che ha assistito a quella svolta: «Un vicino stava ristrutturando la casa. Un muratore ha aperto un foro nella soffitta comune, per controllare la canna fumaria, e ha trovato i due borsoni con quell’arsenale». Il giorno stesso il custode delle armi confessa che appartengono a Giovanni Ventura, che le ha fatte portare lì, nel 1970, dal fratello Angelo e da un suo dipendente, Franco Comacchio. Che conferma: erano di Freda e Ventura, era un arsenale di una loro «organizzazione segreta», eversiva, che collocava anche «ordigni esplosivi sui treni».

Comacchio e la sua convivente aggiungono che prima, «nella primavera 1970», l’arsenale fu portato a casa loro «in una cassa»: tra le armi, videro anche «candelotti di esplosivo». Impauriti, li nascosero alle pendici del Monte Grappa, «in una fenditura tra le rocce». Nel punto indicato, la sera del 7 novembre, i carabinieri trovano «35 cartucce di esplosivo: 20 di colore marrone, 15 blu scuro». Il perito di turno ne accerta «l’avanzata decomposizione e l’estrema pericolosità», ordinandone «la rapida distruzione, senza poter prelevare campioni». Impossibile, dunque, fare confronti con la bomba di piazza Fontana, che secondo l’intero collegio dei periti era composta proprio da due tipi di esplosivo: «dinamite-gelatina da mina», contenuta in «cartucce», e «binitro-toluolo», un’altra sostanza «di frequente uso militare». Non a caso, la chiamavano strage di Stato.

Oggi, nel bar al centro della piazza, di fianco al palazzo che custodiva l’arsenale, sono seduti otto universitari, tutti di Castelfranco. Due ammettono, imbarazzati, di sapere «poco o niente» di piazza Fontana. Gli altri sei conoscono la matrice politica: «Terroristi neri, destra». Solo un ragazzo con la barba sa che fu arrestato «anche uno di Castelfranco, Ventura». Ma «neofascisti o brigatisti» gli sembrano «una storia superata»: «Il terrorismo, nero o rosso, appartiene al passato, il nostro è un mondo diverso». Speriamo.