Presso il Teatro Garbatella di Roma (Piazza Giovanni da Triora, 15), è in corso la presentazione del nuovo libro di Luigi Li Gotti e Saverio Lodato, “Stragi d’Italia. Il caso Almasri e tutto quello che Giorgia Meloni e il governo non vogliono ammettere” (ed. Fuoriscena).
Assieme ai due autori intervengono Giuseppe Conte (presidente del Movimento 5 Stelle), Salvatore Borsellino (fratello del giudice Paolo Borsellino e leader del Movimento “Agende Rosse”), e Roberto Scarpinato (già procuratore generale di Palermo, oggi senatore M5Stelle e membro della Commissione parlamentare antimafia).
Inoltre è previsto anche il saluto e una testimonianza di Sigfrido Ranucci, giornalista e conduttore di Report, vittima di minacce e del recente attentato. A moderare l’incontro sarà il nostro direttore Giorgio Bongiovanni.
Per comprendere l’importanza di questo libro proponiamo ai nostri lettori un estratto dell’introduzione scritta da Saverio Lodato.
Ripetere l’ovvio
di Saverio Lodato
Fonte: Antimafia Duemila
In nessun Paese al mondo esiste il precedente di un avvocato che da solo, di sua spontanea volontà, sorretto esclusivamente dai codici, dalle carte bollate e da un fascio di quotidiani freschi di stampa, un bel giorno sale le scale del Palazzo di giustizia della sua città per portare in giudizio un intero governo in carica. Era nel suo diritto farlo. E questo diritto lo ha esercitato sino in fondo. Il suo è un grido fuori dal coro, come dimostra questo libro-intervista di cui è il protagonista principale.
Resta dunque da dire qualcosa su di lui, l’avvocato penalista Luigi Li Gotti.
Era ora che Li Gotti parlasse. Avendo alle spalle una carriera durata mezzo secolo, con cognizione di causa avanza in questo libro una propria, forte, tesi di fondo. Una tesi argomentata, non proclamata. Molti la troveranno urticante. La tesi, ridotta all’osso, è infatti che la grande politica e la grande criminalità per decenni si sono incontrate, spesso intrecciate, altrettanto spesso vicendevolmente coperte e protette.
Li Gotti ha avuto l’occasione professionale di attraversare le pagine nere della storia italiana dagli anni dell’immediato dopoguerra ai giorni nostri. E in lui, con il passare del tempo, si è fortificata una visione d’insieme dei grandi fatti criminali che ci restituiscono, se non il Dna della storia d’Italia, qualcosa che molto ci assomiglia. Avrebbe potuto restare ancorato alla visione tradizionale della verità processuale, con il suo corollario di condannati e assolti. Ma chi lo conosce un po’ sa che sarebbe stato chiedergli troppo. Non appartiene, infatti, alla schiera di quanti preferiscono non lasciare riflessioni scritte sul loro lavoro.
Qualcosa dentro di lui è scattato, nonostante sia tutt’altro che poco attrezzato a mettere in conto la presenza del «male», in tutte le sue infinite sfaccettature e ramificazioni. Essendo stato, fra le altre cose, il difensore di pentiti di mafia del calibro di Tommaso Buscetta, Francesco Marino Mannoia, Giovanni Brusca, non è facilmente impressionabile. Eppure, qualcosa è accaduto in occasione della vicenda che potremmo banalmente sintetizzare come «il caso del generale libico torturatore restituito al suo Paese con tanto di volo di Stato». Dopo decenni trascorsi, come migliaia di suoi colleghi, a salire e scendere le scale dei palazzi di giustizia di tutt’Italia, si è convinto di aver assistito al superamento di un limite. E proprio per responsabilità chiara, dichiarata e manifesta di chi invece, secondo Costituzione, dovrebbe essere a guardia di quello stesso limite.
Ecco perché ha accettato l’inusuale formula del libro-intervista. Perché crede di avere capito abbastanza di certi apparenti misteri italiani, che lui preferisce chiamare «segreti». E che – questa è la cosa che conta – niente sia mai accaduto o continui ad accadere per caso.
Gli avvocati, in Italia, non amano scrivere libri. Preferiscono far sentire la loro voce nelle aule di giustizia, a difesa, giusta o sbagliata che sia, dei loro assistiti. Nella convinzione che non tocchi ai difensori rivolgersi direttamente all’opinione pubblica per metterla a parte di visioni d’insieme che niente hanno a che vedere, a loro giudizio, con le verità sancite e codificate nelle aule riguardo al singolo fatto processuale, alla singola ricostruzione di un accadimento criminale. Come si sa, ogni accadimento criminale che si rispetti ha un suo inizio e una sua fine, con l’inevitabile corollario cui si accennava poc’anzi di condannati e assolti. Quanto alla colpevolezza o all’innocenza, il discorso porterebbe invece assai più lontano. A maggior ragione quando si tratta di argomenti delicati e scabrosi, che solitamente ricadono nella classificazione dei contenuti di libri che è preferibile non scrivere. Se non mettendo in conto, sin dall’inizio, le polemiche e i risentimenti di alcuni, visioni antitetiche a quelle descritte, o persino altre «narrazioni», come usa dire oggi, degli stessi fatti.
Insomma, l’Italia non ama lasciare troppe tracce scritte, essendo, e sia detto di sfuggita, il Paese europeo con il più alto tasso di criminalità organizzata e con il maggior numero di associazioni per delinquere, altrimenti chiamate mafie. Nessuno lo ammette apertamente, nessuno lo scrive papale papale, ci si perdoni l’espressione, ma l’Italia è popolata da convitati di pietra dotati di armi sofisticate, fatturati giganteschi, eserciti sul territorio, raffinate strategie per la conquista e la difesa del loro potere, saldi legami con le istituzioni – financo servizi segreti deviati -, fortissimi rapporti internazionali con altre mafie e, infine, di un immenso potere di ricatto dal quale la politica, persino i vertici più rappresentativi dello Stato, non possono prescindere.








