Quella volta fu Mimmolino Tramontana, un compagno di Gallico, a salvarci la pelle. “Qui c’è una brutta aria. Non mi piace. Andiamo via”, disse. E noi lo ascoltammo. Eravamo circa una cinquantina, i calabresi. Avevamo partecipato alle tre giornate di mobilitazione contro il G8 di Genova. Stremati, dovevamo arrivare sani e salvi alla stazione di Brignole per tornare a casa. Nei due giorni precedenti, molti di noi erano riusciti a sfuggire per un pelo ad aggressioni e agguati. Bastava affacciarsi sulla strada, entrare in un bar a prendere dell’acqua o un caffè, per essere circondati da poliziotti, carabinieri e finanzieri che in pochi secondi ti riempivano di pugni e calci e andavano via solo dopo averti lasciato a terra. Spedizioni punitive, in un clima da colpo di Stato.
Per questo motivo, quella sera ci ponevamo il problema di restare uniti e arrivare in qualche modo alla stazione. Davanti alla “Diaz” passammo a prendere alcuni dei compagni che nei giorni precedenti avevano lavorato nel vicino media center. Io ero stanco: “Guagliu’, restiamo a dormire qui stanotte, in questa scuola. Poi domani mattina, quando la situazione sarà pure più calma, ce ne andiamo”. Mimmolino respinse la proposta. Avendo vissuto gli anni settanta, ha sviluppato quel sesto senso che in situazioni critiche ti può salvare la vita. Seguimmo il suo consiglio. Salimmo indenni sul treno, partimmo, un paio d’ore dopo ci raggiunsero le telefonate dei compagni rimasti a Genova. Dal media center assistevano impotenti all’irruzione della polizia nella “Diaz”, sentivano le urla delle persone massacrate di botte, vedevano passare i feriti insanguinati che nelle ore successive avrebbero ricevuto il trattamento finale nella caserma di Bolzaneto.
Adesso lo Stato patteggia davanti alla corte di Strasburgo, riconosce i crimini commessi dai propri agenti. A 70 anni dall’entrata in vigore della costituzione repubblicana, il governo annuncia che i poliziotti frequenteranno corsi di formazione sui diritti umani. Così, di fatto ammette che tra le divise dei suoi servitori, sinora di umanità ce n’è stata poca. Inoltre pagherà 45mila euro ad alcune delle vittime di quelle violenze. In sintesi: un tentato omicidio e 24 ore di torture equivalgono a meno di due anni di stipendio lordo percepito da un insegnante. Cioè poco!
La sorte toccata agli attivisti massacrati nella “Diaz” o a “Bolzaneto” non è paragonabile a nessun’altra. Per capire quello che hanno vissuto, bisogna rivisitare la letteratura cinematografica sul Cile o sull’Argentina dei colonnelli. Il film sulla “Diaz” non l’ho mai voluto vedere. Mi bastano i miei incubi. Non ne voglio accumulare di ulteriori. Comunque, se a me e a un’altra dozzina di compagni è andata meglio sul piano dell’incolumità, non altrettanto per quanto riguarda il risarcimento. A distanza di un anno e mezzo dal G8, vennero nottetempo nelle nostre case ad arrestarci. Fummo imprigionati nelle carceri speciali e liberati pochi giorni dopo, a furor di popolo. Se confrontata con quanto sarebbe accaduto negli anni successivi agli attivisti NoTav e a tante altre persone che in questo Paese lottano per la dignità umana e contro il neoliberismo, la nostra fu un’esperienza sopportabilissima, per quanto possa essere sopportabile vivere da detenuto l’inferno del carcere, anche solo per pochi minuti.
A distanza di quasi dieci anni dall’arresto, nel 2011, per la terza volta consecutiva, un tribunale ha ammesso che eravamo innocenti, estranei a ogni accusa e, diciamola tutta, anche un po’ minchioni. Pochi mesi dopo, la corte d’Appello di Catanzaro, tramite Equitalia, ci ordinava di pagare 1780 euro a testa. Come? Ma non eravate innocenti? Sì. Il fatto è che nel 2004, durante l’udienza preliminare al processo che si sarebbe svolto in corte d’Assise, avevamo osato ricusare il GUP Giusy Ferrucci perché non ci aveva convinto la sua modalità di conduzione del procedimento. Il compianto avvocato Peppino Mazzotta, che all’epoca veniva in aula a difenderci su una sedia a rotelle perché gravemente ammalato, ci disse: “Compagni, lasciamo stare questa ricusazione. Sono leggi fatte per i ricchi. La respingeranno e saremo pure chiamati a pagare”. Noi non seguimmo il suo consiglio. Pochi giorni dopo, la corte d’Appello di Catanzaro respinse la ricusazione e ci comminò una sanzione, il cui pagamento è stato disposto a fine processo, con una rapidità sorprendente per i tempi abituali dell’italica burocrazia giudiziaria.
Poi nel 2015, con un’ordinanza, la stessa corte d’Appello riconosceva la nostra ingiusta detenzione e condannava il ministero dell’Economia a risarcirci.A me destinava la somma di 1886 euro. Sebbene in questi anni i quotidiani cosentini mainstream abbiano più volte titolato “Risarciti i Noglobal”, sinora né io né altri abbiamo mai visto un centesimo. Solo alcuni di noi hanno ottenuto di recente la somma di riparazione dovuta, e sono felice per loro, alla luce anche dei sinceri rapporti di affetto e stima che non sono mai venuti a mancare, neanche nei momenti più difficili.
A conti fatti, però, avendo già sborsato a Equitalia 1780 euro per la faccenda della ricusazione, quando da Roma si degneranno di accreditarmi la cifra promessa, a me in tasca resterà la somma di 100 euro che, divisa per otto giorni di galera, fanno 12 euro e mezzo. Un giorno di carcere speciale vale 12 euro e mezzo. Se fossimo stati imprenditori, lo Stato avrebbe dovuto sborsare di più. Rimango dell’idea che questa società non abbia alcun bisogno delle carceri. E che in ogni caso, in Italia il carcere, come la giustizia, non è uguale per tutti.
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