Calabria, la liquidazione del Corap puzza(va) di ‘ndrangheta: il ritorno di Caldiero e il no della Consulta

Fernando Caldiero

Ogni volta che un’azienda o una società partecipata dalla politica fallisce, viene fatta fallire o si prova a farla andare in liquidazione c’è sempre lo zampino dei colletti bianchi della massomafia calabrese. E non c’è dubbio che in questi casi dalle nostre parti il numero uno è Fernando Caldiero detto Nando, da Cetraro, vicinissimo a tutti i politici corrotti della nostra realtà ma in modo particolare a quelli del Pd e a Nicola Adamo. 

Oggi abbiamo appreso che gli “scienziati” del porto delle nebbie di Cosenza dopo aver dichiarato il fallimento dell’Amaco hanno nominato proprio Caldiero (!) come curatore fallimentare e l’occasione è ghiottissima per ricordare ai nostri lettori chi è questo colletto bianco. Partendo dall’ultimo caso tragicomico del Corap per arrivare gradatamente a tutte le sue altre “imprese” sul Tirreno e in particolare all’ex clinica Tricarico.

Molto probabilmente c’è un filo logico tra il maxi sequestro di beni ai dirigenti del Corap per gli stipendi gonfiati e la decisione della Consulta di bocciare la liquidazione coatta dell’ente arrivata a febbraio 2021. 

La norma regionale utilizzata per porre in liquidazione coatta amministrativa il Corap infatti è stata definita incostituzionale. Lo ha sancito la Consulta in una sentenza depositata nel febbraio 2021. Accolto, dunque, il ricorso della presidenza del Consiglio dei ministri che aveva impugnato la legge calabrese di riordino del Consorzio per lo sviluppo delle aree industriali. Per Palazzo Chigi, considerato che sono «soggette a liquidazione coatta amministrativa le imprese di assicurazione, le banche, le società cooperative, i consorzi di cooperative ammessi ai pubblici appalti, le società per azioni debitrici dello Stato, le società fiduciarie e le società di revisione», il Corap «non rientra in nessuna delle ipotesi, per cui la norma regionale indebitamente estende l’ambito soggettivo di applicazione della procedura». Nella legge votata dal Consiglio regionale si stabiliva l’estinzione dei debiti del Consorzio «esclusivamente nei limiti delle risorse disponibili alla data della liquidazione ovvero di quelle che si ricavano dalla liquidazione del patrimonio del Consorzio medesimo».

E allora, visto che ci siamo, raccontiamo per filo e per segno come il superclan dei politici calabresi avrebbe voluto “risolvere” la situazione relativa al “buco” supermilionario del Corap. 

Fuochi di paglia: questo sono le proteste dei politici ogni volta che un nuovo scandalo si affaccia alla ribalta regionale. E’ successo, solo per citare qualche caso, con la Fondazione Terina, con Calabria Verde, con Fincalabra e adesso con il Corap. Solo che, nell’ultimo caso, è intervenuto il Governo che ha impugnato la Legge regionale 47/2019, adesso finalmente definita incostituzionale anche dalla Consulta. Quella, per spiegarci, che, introducendo la possibilità di mandare in liquidazione l’ente, in sostanza, passava un “bel colpo di spugna” sui sei anni di commissariamento delle ex Asi ad opera della fantasmagorica Regione Calabria: per intenderci, la più incapace, fannullona, dissipatrice fra tutte le regioni d’Italia.

Sei anni nel corso dei quali si è visto di tutto e di più. Intrallazzi, scelleratezze e pastette passate sotto gli occhi di tutti senza che una sola voce si sia levata per contrastare quel massacro. Né quella degli esponenti del governo regionale (che continuiamo a pagare profumatamente senza un perché); né quella dei dirigenti del Dipartimento regionale vigilante (un vero e proprio verminaio); né quella della magistratura (evidentemente in altre faccende affaccendata); né quella dei tanti amministratori delle ex ASI (che non hanno sentito il dovere morale di chiedere una sola spiegazione all’ex governatore che, blaterando sulle “vecchie gestioni”, lasciava che si spolpasse senza pietà il malcapitato Ente).

Ma al peggio non c’è mai fine: infatti, dopo aver dilapidato un patrimonio ad opera dei più incompetenti (nella materia trattata, è ovvio) dirigenti regionali che, vestiti i panni dei commissari Corap, ne hanno combinato di tutti i colori -il famoso Marocco è solo la punta dell’iceberg-, ecco apparire all’orizzonte il “liquidatore” Fernando Caldiero, noto dirigente -guarda caso- del PD, molto vicino a Nicola Adamo.

Costui, Caldiero, nei panni del quinto (!) commissario delle ex Asi, tomo tomo cacchio cacchio – come direbbe Totò -, ha cominciato a tessere la sua tela e, invece di capire e richiamare alle proprie responsabilità i suoi predecessori, ha spinto il Consiglio regionale verso l’approvazione della legge che spalancava per il Corap le porte sul baratro della liquidazione. Complice un bilancio che più fasullo non si può -peraltro mai approvato da chicchessia-, ha convinto tutti che la liquidazione fosse l’unica strada percorribile; nonostante il parere contrario dell’avvocatura regionale, del Revisore Unico dei Conti e nonostante che il dirigente preposto, il dottor Rechichi, avesse messo nero su bianco che la montagna di debiti esposti in quel bilancio mai approvato fosse in effetti pura invenzione della Guzzo (la terza commissario Corap) e dei suoi sodali dirigenti. Ma quei conti farlocchi facevano agio un po’ a tutti: maggioranza ed opposizione della Regione. Epperò, che la politica non fosse cosa da educande, ci era noto; ma quando diventa vigliacca diventa inaccettabile.

Ed, infatti, Caldiero, con la sua ostentata umiltà, nella più generale ipocrisia, era riuscito non solo a far approvare una legge palesemente incostituzionale, appunto la 47/2019, ma anche a farsi nominare commissario liquidatore: la qual cosa spiegava in gran parte, ma non del tutto, quale fosse il suo reale interesse. Infatti, marciando deciso verso la liquidazione del Corap, il professionista si era auto-procacciato un lauto compenso che, male che vada, gli avrebbe fruttato compensi non inferiori al mezzo milione di euro.

Non si può negare, però, che il soggetto fosse stato abile: era riuscito a far passare sotto silenzio non solo la sua nomina a liquidatore, ma finanche il fatto che la sua legge fosse stata impugnata dal Governo che, una volta tanto, non si era distratto e aveva tacciato la norma calabrese di aver sconfinato nei poteri riservati allo Stato. Non solo: il ricorso dell’avvocatura statale (pubblicato sul BURC del 10/2/2020) metteva in evidenza ulteriori vizi; fra tutti, la non applicabilità agli enti pubblici delle norme tipiche della procedura fallimentare.

Questioni quelle sollevate dal Governo che, con il massimo rispetto, non costituiscono di certo una novità. Le avevano sollevate, come detto, alcuni (pochi) consiglieri regionali, alcuni (pochi) sindacalisti, l’avvocatura regionale e, non fra gli ultimi, il Revisore Unico dei Conti del Corap, successivamente e prontamente defenestrato da Caldiero.

Si sapeva tutto perché, in fondo, i calabresi non hanno l’anello al naso. Non lo hanno neanche quei pochi dirigenti del Corap che avevano predetto al commissario che andando avanti sulla strada della liquidazione uno dei primi effetti sarebbe stata la perdita degli introiti -circa 5 milioni annui per un ventennio- legati al depuratore dell’Asi di Crotone. Ed, infatti, puntualmente, la perdita è stata registrata. La Cogei, società che in RTI (rete temporanea di impresa) con il Corap gestiva l’impianto crotonese, ha scritto al commissario preannunciando l’avocazione a sé dell’intera commessa. 5 milioni di euro annui buttati al vento.

E’ una perdita, quella annunciata della Cogei, che avrebbe fatto rimordere la coscienza di chiunque. Ma, lo si sa, la voce della coscienza è ben debole quando l’intestino urla.

Quello che non si comprendeva in questa folle corsa del liquidatore, incurante di una legge che era chiaro a tutti che sarebbe stata dichiarata incostituzionale, era chi avrebbe dovuto rispondere dei danni, e delle perdite che Caldiero avrà aggiunto ai danni e alle perdite prodotte dai regionali, suoi predecessori.

Ma nella Calabria dal ventre molle tutto è possibile potendo contare su una fitta rete di complicità che annovera politici, faccendieri e, come abbiamo purtroppo visto, un certo numero di toghe. Caldiero, quindi, avanzava indisturbato e continuava nella stima dei beni del Corap per procedere alla loro vendita prima che la Corte Costituzionale si pronunciasse sulla legge impugnata dal Governo.

Tanto, si sa, nella sua vita professionale di liquidatore ha lavorato gomito a gomito con tanti magistrati; diciamo pure che è parte integrante dell’ambiente. D’altronde, se così non fosse, non sarebbe stato in grado di procedere indisturbato, sguarnito persino degli organi previsti dalla stessa legge da lui voluta: l’ennesimo un uomo solo al comando; un altro Schettino che salva sé stesso mentre la nave si infrange sugli scogli e senza un Di Falco che gli urli “torni a bordo c…!”.

Una domanda, però, prevaleva sulle altre: ma perché mai il governatore Oliverio che aveva portato la Calabria allo stremo -e con essa anche il suo partito- aveva perseguito gli stessi obiettivi di chi l’aveva preceduto? Perché Oliverio, coadiuvato dalla squadra dei commissari da lui prescelti, aveva pervicacemente diretto la sua azione verso la distruzione delle ex Asi per poi tentare di coprire le tante malefatte sotto la coltre della liquidazione? Perché, insomma, in questa benedetta Calabria gli interessi protervi di pochi devono prevalere su quelli legittimi dei tanti? Se non puzza di ‘ndrangheta questa storia, diteci di grazia, da dove proviene tanto nauseante olezzo.

E finalmente anche la Magistratura se n’è accorta e finalmente il Corap è salito alla ribalta della cronaca con una bella “doppietta”: niente liquidazione per il “lupo” Caldiero e maxi sequestro per i papponi e la pappona. Ora si tratterà di verificare quanti danni avrà fatto il prode Caldiero e soprattutto se verranno fuori. In ogni caso il tempo è sempre galantuomo e prima o poi sapremo anche questo. A futura memoria.

Rosario Perrotta