Coronavirus, 30° giorno. Perché proprio Bergamo? Una riflessione oltre la notizia

di Marco Noris

Fonte: Attac Italia (https://www.italia.attac.org/)

Se qualcuno, a Bergamo, potesse risvegliarsi da un lungo sonno durato solo un paio di settimane e si guardasse in giro, penserebbe che l’intera provincia stia affrontando le conseguenze di un improvviso e imprevedibile disastro o che tutto sia diventato un gigantesco set cinematografico per un B movie apocalittico.

Purtroppo non si sta girando nessun film, anzi, il cinema stesso è un ricordo, così come tutti gli altri luoghi di aggregazione collettiva dei quali, ormai, ci stiamo abituando a fare a meno.

La lunga fila dei mezzi dell’esercito che portano via dalla città le bare in eccesso che hanno riempito il grande cimitero cittadino, ci danno la sensazione di una guerra in corso contro un nemico, però, invisibile. È uno scenario pre-moderno che ricorda i tempi bui delle pesti medievali. Siamo nel pieno di una pandemia, l’intero pianeta è coinvolto come non si vedeva più dai tempi della terribile cosiddetta “Spagnola”, di un secolo fa.

Quello che però rimane da capire è perché Bergamo, oggi, per contagio e vittime sia diventata il centro mondiale del Covid-19.

Fino a pochi giorni fa #‎bergamoisrunning, era lo slogan in voga. Il 29 febbraio, Confindustria Bergamo pubblicava un accattivante e rassicurante video a tutti i suoi clienti esteri

Il presidente Stefano Scaglia, in una lettera inviata a quanti avevano rapporti di lavoro con le aziende bergamasche, testualmente affermava:

“Comprendiamo che potresti essere interessato ai potenziali rischi del Coronavirus Covid-19, ma abbiamo un messaggio importante da Bergamo per tutti i nostri partner. Oggi viviamo in un mondo globalizzato. Ciò significa che solo le soluzioni globali e le risposte globali sono le migliori. I casi di coronavirus sono stati diagnosticati in Italia come in molti altri Paesi. Le attuali avvertenze sanitarie dei dipartimenti governativi italiani indicano che il rischio di infezione è basso. I governi italiani e le agenzie responsabili hanno adottato misure di protezione immediate, al fine di prevenire nuovi casi…”

La Bergamasca, come altre provincie lombarde, ha ovviamente innumerevoli rapporti imprenditoriali con l’estero ma la domanda che molti si fanno è perché proprio Bergamo e perché, in particolare in Val Seriana, il virus ha colpito quasi tutte le famiglie, difficile avere parenti e conoscenti della valle che non abbiano avuto nessun malato o, purtroppo, nessun decesso in famiglia. La Val Seriana è famosa per il settore tessile sviluppato sin dal medioevo. I rapporti con la Cina, soprattutto in questo settore, sono costanti, anzi, alcune aziende della valle hanno vere e proprie sedi in Cina, anche nelle zone che sono state tra le prime colpite dal virus.

Ora, le domande che si fanno in molti sono: quanto queste aziende, i viaggi del personale e dei tecnici da e per la Cina hanno contribuito alla diffusione del virus? Quanto l’ottimismo della classe imprenditoriale orobica, o per dirla più direttamente, l’incoscienza motivata dal profitto, ha colpevolmente sottovalutato il problema fino a quando possibile? Quanto i viaggi dei tecnici e del personale sono continuati ad epidemia ormai conclamata anche, forse, eludendo blocchi aerei, passando per Bangkok o la Russia, per evitare i costi di inevitabili quarantene? Sono domande alle quali, oggi, non abbiamo risposta certa, notiamo correlazioni e coincidenze che non fanno una prova ma che, nel rispetto delle vittime, andranno verificate attentamente e chi ha colpevolmente sbagliato dovrà renderne conto.

Tutto ciò, però, è stato possibile e, in buona sostanza, lo è ancora, perché frutto di una situazione precisa, un’asimmetria strutturale, frutto di una politica e di una società che hanno accettato supinamente la supremazia degli interessi del capitale su quelli delle persone.

Ancora oggi, il Decreto Cura Italia appena promulgato all’art. 41 recita: ai dipendenti pubblici e privati (anche dei servizi non essenziali) spetta un premio di 100 euro in proporzione ai giorni lavorati nel mese di marzo. Questo significa che invece, di chiudere tutto ciò che non è essenziale, viene riconosciuto un premio a chi lavora. Questo significa, sostanzialmente, incentivare il lavoro, creare una profonda asimmetria tra i cittadini costretti a rispettare le regole restrittive imposte dal contagio, e l’interesse del profitto, che viene invece tutelato a scapito della salute pubblica. Le immagine delle strade deserte sono agghiaccianti, così come lo è il contrasto delle immagine dei mezzi pubblici affollati che portano al lavoro le persone, le fabbriche ancora aperte e gli operai che lavorano con la stessa identica mascherina ormai inutile da due settimane.

Oggi, le realtà lavorative italiane che non si occupano di servizi essenziali sono vere e proprie bombe dal punto di vista del contagio. Qualcuno sta cominciando a contare i lavoratori morti da Coronavirus contagiati nelle fabbriche. Certo, alcune fabbriche hanno chiuso, molte altre no, ma se lo Stato lascia discrezionalità all’impresa e non ai suoi cittadini dovremmo rivedere sui nostri dizionari la stessa definizione di democrazia e correggerla da governo del popolo a governo dell’impresa. Ormai, in Italia e in Occidente è così da troppi decenni, talmente tanti che nessuno mette in discussione questa cultura. Ad un Esecutivo che si rispetti, tra l’interesse di pochi e quello di tutti, dovrebbe essere molto chiaro quale scegliere.

Quando tutto ciò sarà finito, ci sarà un conto molto alto da pagare: se non vorremo essere ancora noi a pagarlo dovremo attrezzarci al meglio perché rapporti di forza e cultura politica subiscano un’autentica rivoluzione copernicana. Cominciamo a prepararci fin da ora.