Ciao Gigi Riva “Rombo di Tuono”, un film per raccontarlo ai giovani: il tesoro della Sardegna

Poco più di un anno fa, il 7 novembre del 2022, al Teatro Massimo di Cagliari, il regista Riccardo Milani aveva presentato il docufilm “Nel nostro cielo un rombo di tuono” sulla  vita del grande Gigi Riva, che quel giorno compiva 78 anni. E lui, da sempre schivo e riservato era lì ad assistere alla prima, quasi come se avesse saputo che quella sarebbe stata la sua ultima apparizione pubblica. Riva aveva spiegato come il regista era riuscito a convincerlo a partecipare al film: “Lui ha alle spalle una lunga carriera professionale. È venuto a casa mia, me ne ha parlato, anche se è un’idea che covava da tanto tempo e, alla fine io ci sono stato. Ha raccontato gli stati d’animo, le difficoltà, le paure, ma anche le emozioni della mia infanzia e adolescenza, quello che ho provato e vissuto prima di arrivare in Sardegna sono parte di me”.

Di seguito, un bel “ritratto” di Gigi Riva firmato da un grande del giornalismo sportivo italiano, Roberto Beccantini.

di Roberto Beccantini

E’ ancora là: con i suoi amori, con le sue cicatrici, con il suo orgoglio. I compleanni ondeggiano sempre tra borotalco e rotocalco. Spiegare Riva ai giovani è un piacere e un onore. Perché Gigi Riva è stato, a mio avviso, il più grande attaccante italiano del Dopoguerra. Ha portato il Cagliari allo scudetto (1970), è stato campione d’Europa nel 1968 e vice campione del Mondo in Messico, nel ‘70. Detiene ancora oggi il record di gol in Nazionale: 35 in 42 partite.
Tre volte capocannoniere, in serie A ne realizzò 156, e chissà quanti ne avrebbe segnati se solo avesse potuto contare sul liberismo normativo degli ultimi anni: dal mani-comio al fuorigiochicidio, dagli autogol estinti al potere che la Fifa sfilò ai difensori per offrirlo ai cacciatori, di frodo e non.
Portava il numero undici, sinistro fino al midollo, Gianni Brera lo ribattezzò Rombo di Tuono. Per come tirava, per come riempiva il cielo delle partite. Non un lampo: un tuono. Definirlo attaccante è riduttivo. Riva era l’attacco. Lo copriva tutto, per tutti. Era, quel Cagliari, il Cagliari di Manlio Scopigno detto il filosofo. Un sabato sera entrò nella camera in cui Riva, Enrico Albertosi, Bobo Gori e Cesare Poli stavano giocando a poker. Fumavano come turchi. Il sabato sera. La vigilia della partita. Il massimo della trasgressione. “Disturbo se fumo?”, chiese Scopigno. E il giorno dopo il Cagliari vinse, naturalmente.
Foto LaPresse

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Ai suoi tempi, il pallone rotolava a ritmi meno ossessivi. Alla Nazionale, Gigi trovò il tempo – e i “complici” – per sacrificare entrambe le gambe: il portiere del Portogallo, Americo, gli spezzò il perone sinistro nel 1967, allo stadio Olimpico di Roma; il terzino austriaco Hof gli tranciò il perone destro nel 1970, al Prater di Vienna.
Orfano di padre a nove anni, e di madre quando partì per Cagliari: “Cosa vuoi che ti dica? Che dedico il gol alla Sardegna o all’Italia se gioco in Nazionale? Ma non facciamo ridere: io non ho nessuno a cui dedicare nulla. Segno per dovere”, confessò a Gianni Mura. Scrivendo di Gigi Riva, del suo coraggio e della sua scorza, mi viene in mente Osvaldo Soriano. Fieri, solitari y final: li immagino così, tutti gli anni di questo guerriero, prigioniero-padrone dei suoi silenzi. E, dunque, libero.