La Dda di Reggio Calabria ormai da anni sta puntando al patrimonio della ‘ndrangheta e sta risalendo a tutti i complessi “sistemi” con i quali veniva riciclato il denaro sporco. La maxi confisca di oggi (40 milioni di euro agli imprenditori edili Giordano e Surace) fa seguito a quella dello scorso agosto – 160 milioni di euro – all’imprenditore edile Carmelo Ficara ed è un altro dei tasselli che si aggiunge al mosaico del procuratore Bombardieri. Sono due le operazioni che hanno portato alla luce i sistemi di riciclaggio. La prima è l’operazione Monopoli (https://www.iacchite.blog/ndrangheta-a-reggio-dalloperazione-monopoli-alla-maxi-confisca-a-carmelo-ficara/) ma non è meno importante l’operazione Martingala.
I nomi di Andrea Francesco Giordano, Michele Surace a Carmelo Ficara, inoltre, emergono infatti anche dalle risultanze investigative di cui all’operazione “Martingala” condotta dalla Guardia di Finanza, contro un articolato sodalizio criminale dedito alla commissione di gravi delitti tra cui – a vario titolo – quelli di associazione mafiosa, riciclaggio e autoriciclaggio, associazione a delinquere finalizzata all’emissione di false fatturazioni, con l’aggravante – per alcuni di essi – del metodo mafioso – e conclusa nel 2018 con l’esecuzione di provvedimenti restrittivi personali nei confronti di 27 persone, nonché di provvedimenti cautelari reali nei confronti di 51 società – anche estere – partecipazioni sociali, beni mobili e immobili, disponibilità finanziarie per un ammontare complessivo stimato in circa 119.000.000 euro.
Il sistema Scimone
In tale contesto, è stato delineato un illecito sistema – c.d. “Sistema Scimone” dal nome del suo ideatore e promotore Antonio Scimone (principale artefice del meccanismo delle false fatturazioni e vero “regista” delle movimentazioni finanziarie dissimulate dietro apparenti attività commerciali) – che, attraverso l’emissione e l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti – grazie all’impiego di società cartiere – era funzionale alla consumazione di frodi fiscali e di riciclaggio, nonché al reimpiego di imponenti flussi finanziari provenienti da imprenditori espressione dell’infiltrazione economica della ‘ndrangheta.
Il ruolo delle “cartiere”
L’organizzazione poteva contare su un gruppo di società di comodo, comunemente definite “cartiere”, che venivano sistematicamente coinvolte in operazioni commerciali inesistenti, caratterizzate dalla formale regolarità attestata da documenti fiscali ed operazioni di pagamento rivelatesi tuttavia, all’esito delle indagini, anch’esse fittizie. Le società avevano sede in vari paesi dell’Unione Europea (Croazia, Slovenia, Austria, Romania) e dopo non più di un paio di anni di “attività”, venivano sistematicamente trasferite nel Regno Unito e cessate.
Tutto ciò era funzionale ad evitare accertamenti, anche ex post, sulla loro contabilità. Le fittizie operazioni hanno consentito al sodalizio di mascherare innumerevoli trasferimenti di denaro da e verso l’estero, funzionali alla realizzazione di molteplici condotte illecite, quali “in primis” il riciclaggio ed il reimpiego dei relativi proventi. Questo meccanismo fraudolento, mediante la predisposizione di false transazioni commerciali, ha costituito il volano per l’instaurazione di articolati flussi finanziari tra le aziende degli indagati e le società di numerosi “clienti” che di volta in volta si rivolgevano agli stessi per il soddisfacimento di varie illecite finalità, tra cui la frode fiscale.
Gran parte di questi clienti erano imprenditori espressione, direttamente o indirettamente, delle cosche di ‘ndrangheta operanti sul territorio dei “tre mandamenti”. Le approfondite indagini finanziarie portate a termine dagli uomini della DIA hanno consentito di accertare che, attraverso questo collaudato meccanismo fondato sulle operazioni fittizie, Antonio Scimone ed i suoi sodali riuscivano a far transitare dai conti delle società cartiere flussi finanziari per diverse centinaia di migliaia di euro al mese.
Questo vorticoso giro di denaro aveva termine direttamente in Italia mediante bonifici a società di comodo, oppure sui conti di società estere. Da detti conti il denaro veniva successivamente prelevato e riportato in contanti in Italia. L’organizzazione ha dimostrato anche una notevole capacità di infiltrarsi nella gestione ed esecuzione di appalti pubblici. Ciò è avvenuto con varie modalità, ad esempio con la predisposizione di contratti di Joint Venture, o anche tramite i contratti di “nolo a freddo”: tali strumenti contrattuali venivano sviati dalle loro cause tipiche; nelle mani di Scimone diventavano flessibili strumenti funzionali all’esigenza di drenare, in modo apparentemente lecito, denaro da società che si erano aggiudicate appalti pubblici.
In relazione alle risultanze dell’attività, la Direzione Distrettuale Antimafia – sempre più interessata agli aspetti economico-imprenditoriali legati alla criminalità organizzata – delegava al Gruppo investigazione criminalità organizzata (Gico) della Guardia di finanza, al Nucleo investigativo dei Carabinieri e al Centro Operativo Dia, apposita indagine a carattere economico/patrimoniale finalizzata all’applicazione, nei confronti dei citati imprenditori, di misure di prevenzione personali e patrimoniali.
Patrimoni illecitamente accumulati
Nella stessa ottica, deve essere evidenziato lo sforzo dell’Arma dei carabinieri nella ricerca dei patrimoni illecitamente accumulati (individuazione delle intestazioni fittizie e delle transazioni finalizzate a dissimulare la reale provenienza dei beni), attraverso una implementazione delle strutture specialistiche, che operano in maniera simbiotica rispetto alle tradizionali articolazioni investigative, e che hanno consentito – negli ultimi anni – di raggiungere risultati ragguardevoli nello specifico settore, tranciando il supporto finanziario ai gangli criminali territoriali.
Al riguardo, dopo aver delineato il profilo di pericolosità sociale qualificata dei soggetti, anche valorizzando le risultanze delle pregresse indagini, la pertinente attività investigativa è stata indirizzata alla ricostruzione delle acquisizioni patrimoniali – dirette o indirette – effettuate nell’ultimo trentennio, accertando – attraverso una complessa, articolata e minuziosa attività di accertamento e riscontro documentale – i patrimoni dei quali i medesimi risultavano disporre, direttamente o indirettamente, il cui valore era decisamente sproporzionato rispetto alla capacità reddituale dichiarata ai fini delle imposte sui redditi, nonché le fonti illecite dalle quali i medesimi avevano tratto le risorse per la loro acquisizione e, soprattutto, la natura mafiosa delle attività d’impresa svolte – nel tempo – dai proposti quali imprenditori espressione delle cosche di riferimento.
Con riferimento al percorso esistenziale dei proposti, venivano individuate le condotte delittuose poste in essere, le frequentazioni, i legami parentali, i precedenti giudiziari e gli altri elementi ritenuti fondamentali per la formulazione, ai sensi della normativa antimafia, da parte della competente A.G., del prescritto giudizio prognostico sulla pericolosità sociale.
Imprenditori inseriti nelle file della ‘ndrangheta reggina
Dagli approfondimenti info-investigativi è infatti emerso come gli imprenditori, inseriti nelle file della ‘ndrangheta reggina, avessero stabilmente e in maniera sistematica messo a disposizione – nel tempo – le proprie risorse economiche e capacità professionali, non solo a favore delle citate cosche Tegano e De Stefano – intessendo con questi un rapporto di florida e pluriennale collaborazione in una prospettiva di biunivoca utilità – ma anche a sostegno delle più importanti famiglie mafiose del capoluogo quali i Latella, Libri ed i Labate, nell’ottica dell’ormai riconosciuta unitarietà della ‘ndrangheta.
Acquisiti plurimi elementi di riscontro in merito a fittizie intestazioni di beni – architettate dai citati imprenditori con la complicità di familiari e terzi prestanome – per eludere l’applicazione dì misure di prevenzione patrimoniali, attraverso la costruzione di articolate strutture volte a schermare la titolarità di fatto di società e immobili costituenti un cospicuo patrimonio di provenienza delittuosa.
Il sequestro
Alla luce di tali risultanze, il Tribunale di Reggio Calabria – Sezione Misure di Prevenzione – su richiesta della citata Dda, aveva già disposto l’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale del sequestro dell’intero patrimonio riconducibile a Andrea Francesco Giordano, Michele e Giuseppe Surace e Carmelo Ficara, nonché ai rispettivi nuclei familiari, costituito dall’intero compendio aziendale di 20 imprese/società commerciali edili (comprensivo, altresì, di quote sociali, 172 immobili, 9 veicoli), quote societarie relative a 10 imprese, 284 tra fabbricati e terreni, 4 veicoli, nonché disponibilità finanziarie e rapporti bancari/assicurativi, per un valore stimato in oltre 200 milioni di euro. Poi la maxi confisca per Ficara per un valore stimato in circa 160 milioni di euro e quella a Giordano e Surace per altri 40 milioni di euro.