Marco Minniti e il caso Regeni: ma un viceministro non deve dimettersi mai? (di Vito Barresi)

Vito Barresi
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Un omicidio fuori luogo e oltre contesto quello del giovane martire della libertà e dei diritti Giulio Regeni, barbaramente trucidato come nella scena di un eccidio nazifascista non si sa ancora in quale strada della megalopica capitale egiziana de Il Cairo?

Assolutamente no, perché esso non è né un delitto in un ‘non luogo’ di studio etnografico o antropologico né tanto meno un crimine senza scena, sfondo e antefatti.

Ancor di più adesso che sono passati tanti mesi dal ritrovamento del corpo massacrato e che persino gli autori materiali, i criminali che hanno compiuto simile atto efferato, potrebbero essere stati a loro volta eliminati e cancellati dalla scena del crimine, occorre ragionare e riflettere sempre più freddamente e alla distanza.

Anche alla luce dell’ennesima, depistante e subdola dichiarazione del presidente egiziano Abdel-Fattah al Sisi, in cui si nega che i servizi di sicurezza egiziani siano stati dietro all’uccisione di Regeni, per ribadire in coro unanime, istituzionale, collettivo e nazionale, la richiesta che va salendo in ampia parte dell’opinione pubblica mondiale, dal board del Washington Post che ha firmato un apposito e circostanziato editoriale fino ai diecimila firmatari dell’appello lanciato dal mondo accademico britannico, affinché sia fatta al più presto piena luce su quanto accaduto.

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Tuttavia appare anche necessario comprendere e raffinare l’analisi pubblica, in sintesi ricostruire e passare al setaccio l’intera scansione di fatti e atti, i comportamenti e la cronologia in termini di tempismo e ritardo, via via assunti a partire dal 25 gennaio 2016, data del rapimento e della scomparsa, dalla filiera delle varie autorità competenti, gli uffici operativi delle nostre istituzioni, in primo luogo quelli dei Servizi Segreti incaricati di fornire alle dirette autorità politiche apicali informazioni utili per ogni immediata decisionalità.

Tutto ciò fin da quando è scattato l’allarme, salita la preoccupazione sui rischi di una nefasta sorte che ‘fatalmente’ incombeva su quell’italiano incensurato, pulito, onesto, corretto che si trovava legittimamente, né sovversivamente né cospirativamente, in uno stato straniero.

Tutto nel mentre la sua famiglia aspettava notizie rassicuranti sulla vita del proprio figlio, un’intera nazione avvertiva più di ieri che la platea e la piazza del mondo che stanno attorno a noi erano divenuti insicure e pericolose, davanti alla protervia di stati inclini ad assumere atteggiamenti lesivi dei nostri diritti internazionali in tema di sicurezza e reciprocità. E qui purtroppo la disamina degli atti e dei fatti delle diverse parti pubbliche istituzionali sul caso Regeni deve richiedere un supplemento straordinario di millimetrica precisione per comprendere e resettare anche i nostri, diciamo, possibili errori.

Sarà anche per questo che nel frattempo cominciano a serpeggiare i dubbi non solo tanto tipici di quei romanzi d’epoca, ad avanzare nei corridoi del potere le ipotetiche suggestioni di sempre incombenti retroscena alla Ustica, gli spettri gialli degli anni Settanta con infiniti e lunghi resoconti di delitti rimasti insoluti. Se continua così il giallo Regeni, finisce che ancora una volta saremo di fronte a un ennesimo ‘segreto’ di stato. E intanto che si attende il punto nuovo dalle indagini in corso, sia da parte delle polizie egiziane che della magistratura italiana, tra le stanze dei Palazzi romani si alza qualche venticello di primavera, refoli caldi come fuoco amico, sull’uomo chiave del governo Renzi.

Senza scrivere alcun tweet la voce del corvo sembra dire: “ma se c’è stata una vittima innocente perché non dovrebbero esserci le dimissioni di un vice ministro come Marco Minniti?”.

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Errori che certo non mancheranno di essere validati o falsificati allorquando al più presto il Parlamento, e qui benemerita l’azione di Luigi Manconi, deciderà di dare il via a un apposita azione non di sporadica audizione del dolore pubblico e privato ma formalizzando un’ inchiesta sul Caso Regeni che abbia il fine di effettuare rapidamente un’attenta disamina dei fatti e delle responsabilità politiche e funzionali.

Marco Minniti
Marco Minniti

Prendendo, come si auspica, nella loro esatta considerazione le coordinate di principio, diritto e legalità lungo una linea, una triangolazione, dove purtroppo, è il caso di dire senza parodiare alquanto, la cosiddetta Intelligence italiana non ha incontrato l’università come declamava uno spot messo in bella evidenza mediale, proprio qualche anno fa dal vice ministro ai Servizi il calabrese Marco Minniti.

Insomma, proprio quel punto dove s’intersecano la libertà e la sicurezza, così tragicamente calpestati, e che per il momento resta coperto da ombre fitte ed oscure, dove agiscono altri interessi, scambi e mercimoni colorati da ragion di stato da parte di servizi ultronei, questo sì un luogo della verità e della giustizia che si trova a vista lungo la mappa, la linea e il percorso che collega i vertici del triangolo tracciato dal fatale ‘pellegrinaggio’ di Giulio e della sua dignità umana e professionale tra Cambridge, Il Cairo e Roma.

Per questo forse, dopo le stonate e politicamente deludenti battute del ministro Gentiloni, indubbiamente e stranamente il più esposto e stressato degli uomini di governo, non sempre coadiuvato adeguatamente e in concerto nella gestione di questa particolare ‘crisi egiziana’, occorre che in Parlamento e nel Paese vengano ribaltate certe strane e inquietanti logiche di mercato, di gretta ragion di stato, in cui si intrecciano tanti fili specifici e strategici, gli interessi non della nazione ma di qualche gruppo di parte, circa il posizionamento dell’intelligence tricolore nel mutato e sempre più incerto equilibrio geopolitico del Mediterraneo.

Vito Barresi